Tragicamente umano

Tragicamente umano

Piero della Francesca, 1416?-1492

Resurrezione, Borgo San Sepolcro

Flagellazione di Cristo, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

È inevitabile che, in un viaggio alla ricerca del Bello, si finisca per parlare di Piero. Piero chi? Direte voi. Piero della Francesca. Un tipo di cui non si parla mai abbastanza, qui dalle nostre parti.

Ci sarebbe da chiedersi perché a scuola nessuno ci abbia indicato con amore e rispetto questa pietra fondante della cultura italiana ed europea, questo classico senza tempo, che come tutti i classici, ha parlato a generazioni di artisti e intellettuali e continua a parlar loro sul tema della bellezza di essere uomini.

Senza Piero è difficile capire davvero Mondrian, Seurat, Manet. A guardar bene, Piero si ritrova in Cézanne, in Degas, in Morandi. Eppure, in pochi ce ne hanno parlato. Chissà perché. Ma io non voglio chiedermelo, perché mi porterebbe fuori strada.

Io voglio parlare di lui, di Piero. Piero, un nome semplice e solo, come Leonardo, come Raffaello, come Michelangelo. Come Dante.

Sì, perché quando per la prima volta la forza pervasiva e ipnotica del genio occupa per intero un nome proprio di persona, rompendone poi gli argini ed esondando nella pianura emozionale di contemporanei e posteri, si guadagna il diritto all’antonomasia eterna.

E se per caso un altro genio bussasse alla porta di quel nome, trovandolo occupato per sempre, l’antonomasia prenderebbe altre vie, come per il Merisi, che se Michelangelo non poteva essere, è diventato Caravaggio per tutti e per l’eternità.

Piero è un classico, dicevo, perché non ha mai smesso di parlare a chi ha davanti, con un linguaggio universale, oltre la storia. Perché classico è chi ha ancora qualcosa da dire, non chi ha già detto tutto… e questa è una visione molto importante dell’antico che si afferma nell’umanesimo, di cui anche Piero si è avvalso, non solo noi nei suoi confronti.

La sua classicità e la sua immortalità prendono origine dai due livelli di assoluto che ha toccato: il linguaggio usato e il contenuto trasmesso.

Naturalmente, nessuno raggiunge la cima dell’Everest senza che in molti prima abbiano tentato, arrivando anche molto vicini alla vetta. Voglio dire che Piero non nasce nel vuoto, in un deserto culturale e sociale, privo di intuizioni rivoluzionarie, di fermento ideale, di ricerca figurativa. Tutt’altro.

Piero nasce nel pieno della rivoluzione umanistica, di cui oggi ancora purtroppo si ha una lettura un po’ semplicistica. A scuola ci hanno trasmesso l’immagine sintetica dell’uomo come microcosmo, immagine in piccolo di un macrocosmo nel quale si osservano astri in ritmo armonico. Un uomo che ha una natura e una forma ben organizzate, integrate, armoniche. In realtà nel grande pensiero umanistico, di questa armonica composizione, di questa visione idealizzata, nel senso platonico del termine, si fatica a trovare traccia. L’uomo è certamente un essere straordinario, un miracolo. Pico della Mirandola, nella sua Oratio de dignitate hominis si chiede proprio Che grande miracolo è l’uomo? Ma il senso di questa sua grandezza non è nella direzione della perfetta armonia. L’essere umano è qualcosa di meraviglioso nella sua straordinarietà, ma tremendamente meraviglioso… E perché è tremendo? Perché non ha una fissa dimora, non ha un linguaggio solo, non ha una forma di espressione unica; non può esser determinato, definito. È qualcosa che si oltrepassa e si trascende continuamente, nella doppia direzione della più terribile abiezione e della sublime capacità di creare bellezza. Sa immaginare la guerra e le sue macchine di morte, distruggere la natura, rendere schiavo il suo stesso fratello, ma può anche essere Francesco e rivolgere parole di amore a lupi e uccelli, può rappresentare la perfezione e la poesia nella facciata di Santa Maria Novella, nella Cupola di Santa Maria del Fiore, nella Pietà di Michelangelo.

La nostra irrequietezza, la nostra volatilità non ci assicurano mai nella posizione che raggiungiamo, ogni giorno dobbiamo deciderci. La vera domanda aperta per gli umanisti è: “Quis es, homo?”(Chi sei tu, come persona?),non “Quid est homo’”(Chi è l’Uomo?). Non la definizione dell’uomo in quanto categoria generale, ma il contrario: la curiosità per la scelta di ognuno. Non la domanda metafisica, ma la domanda a te, come individuo originale e unico: chi vuoi essere, chi decidi di essere, oggi, ora?

Piero è un uomo dell’Umanesimo, che respira questo clima culturale. Nasce a Borgo Sansepolcro, vicino ad Arezzo intorno al 1415. Ha modo di godere della ricerca dei pittori toscani, i senesi, poi Giotto e Masaccio, a Firenze, dove si trova, con il suo mentore Domenico Veneziano, proprio negli anni del grande concilio di Ferrara-Firenze, tra il 1438-39, quando l’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo e la sua corte, i suoi prelati greci e gli intellettuali e i cardinali cristiani guidati da Eugenio IV, tentavano una pacificazione delle due chiese, per far fronte comune all’aggressione ottomana.

È un ragazzo che legge Leon Battista Alberti, che intorno al 1435 aveva pubblicato al sua opera fondamentale, il De Pictura, e osserva, stordito come tutti, le linee modernissime e antiche al tempo stesso di Pippo Brunelleschi.

Raccoglie avidamente tutto questo e ha un’intuizione molto profonda e strutturata, che sperimenterà con successo per tutta la vita. Il mondo, la realtà visibile sono regolati da leggi precise che correlano gli spazi, le forme, la materia con rapporti matematici che si possono trovare, studiare, riprodurre.

Non è una novità assoluta, naturalmente, perché fin dall’antichità alcuni grandi pensatori avevano intuito questi rapporti e indovinato una dimensione geometrica dell’universo, soggetta a regole precise. Il pensiero, però, non è rappresentazione, e la traduzione di questa intuizione in arte figurativa necessita di più talenti insieme, nella stessa persona. I grandi maestri della classicità antica avevano trovato una sintesi intuitiva, rappresentando perfettamente l’armonia e la bellezza. L’avevano intuito, sì, ma non codificato e non sufficientemente approfondito. Infatti, per secoli e secoli, nella totale ignoranza delle leggi della rappresentazione dell’immagine, il piano figurativo a due dimensioni -nel mosaico, nell’affresco, nella tavola- ha stentato a rendere le profondità e i volumi del reale.

Corpi, spazi, colori, anche straordinari nella capacità evocativa, sono rimasti per secoli come tristi prigionieri in una galera a due dimensioni.

Poi, d’improvviso, come spesso accaduto nella storia umana, una, due generazioni consecutive di esploratori coraggiosi e geniali, in gran parte nello stesso luogo magico, al centro della nostra Italia, ha cominciato a sperimentare, ha sciolto le vele e levato l’ancora, puntando il timone verso l’ignoto.

Lo spazio si può rappresentare diversamente, con precisione totale, con il rigore divino che rivela la natura, se studiata, se osservata.

Ecco, uno dei verbi chiave è ‘osservare’. L’occhio umano è la guida, ma deve essere un occhio istruito, un occhio allenato, un occhio saggio, dalla visione profonda e rigorosa. L’occhio alato, il simbolo scelto come propria impresa da Leon Battista Alberti. Un occhio alato che vola alto, quindi, e sa guardare, sa inferire le regole e i rapporti numerici che descrivono i fenomeni. I fenomeni in senso stretto, cioè ciò che si vede, ciò che si può vedere. Lo spazio fisico in cui si svolge la vita e si muovono le forme della vita stessa.

Per la rappresentazione efficace del vero, questo teatro deve essere innanzitutto riprodotto alla perfezione. E Piero impara in fretta, supera ben presto ogni altro che aveva tentato.

Piero rappresenta le quinte della vita come nessuno mai aveva fatto fino a quel momento.

Pensate al meraviglioso spazio cittadino, bipartito e diacronico, della Flagellazione (Fig. 1), oggi conservato presso la Pinacoteca Nazionale delle Marche, nel Palazzo Ducale di Urbino. Una tavoletta di circa 60×80 cm, dipinta a tempera. Un grandissimo enigma, mai completamente risolto. Cosa rappresenta? Esistono moltissime interpretazioni. Intanto va osservata la straordinaria resa prospettica. Ogni elemento è disegnato in proporzione geometrica perfetta, con calcoli raffinatissimi. I dettagli architettonici, i pavimenti con i loro motivi ornamentali, i soffitti, gli oggetti, i personaggi umani. Ecco il primo aspetto: l’esattezza dell’osservazione, l’esattezza della rappresentazione. Un compito che si può dare l’uomo, l’artista. A prescindere da quale sia il dramma da rappresentare. E che cosa vuole raccontare Piero?

Ancora non lo sappiamo bene, sono state argomentate moltissime ipotesi diverse. Quella che prediligo è una lettura storico-politica del quadro, che con tutta probabilità è stato realizzato nel 1458-59 ma fa riferimento ad eventi di 20 anni precedenti. Potrebbe illustrare i fatti del concilio di Ferrara, del 1438, in occasione di quello di Mantova, del 1458. Si tratta di grandi e celebrati incontri organizzati dai pontefici, il primo da Eugenio IV, il secondo da Pio II, per cercare di cogliere alcuni fondamentali obbiettivi: la riconciliazione delle chiese di oriente e occidente, la coagulazione di un fronte di alleanze politiche e militari per difendere Bisanzio dai turchi, nel primo evento, e per riconquistarla nel secondo, visto che era caduta nel frattempo, nel 1453.

Il quadro sarebbe una sorta di manifesto politico del secondo concilio, ricordando come andò (male) il primo. Qui la prospettiva è in grado di rappresentare lo spazio, rendendo la profondità, ma anche l’ubiquità, come dimostra Piero accostando la metà destra della tavola, in cui l’azione si svolge in Italia (Ferrara, appunto) e la metà sinistra, in cui siamo senza dubbio a Gerusalemme e per analogia a Bisanzio. Ponzio Pilato assiste al supplizio di Cristo, con le fattezze dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, in carica proprio ai tempi del concilio di Ferrara… il messaggio è chiaro: non ha fatto abbastanza per salvare Costantinopoli dal Turco, che è il personaggio di spalle, davanti alla colonna di Cristo, che chiaramente è la rappresentazione della Chiesa d’oriente, seviziata dagli infedeli.

A dividere il tempo e i luoghi, nel mezzo, una colonna, ma soprattutto una dimensione di profondità creata dalla fuga delle rette verso l’infinito, dalle linee convergenti dei cassettoni del soffitto, degli intarsi di marmo del pavimento, degli stipiti classicheggianti delle porte e della stessa colonnetta ove il Cristo subisce il supplizio.

A destra, in primo piano un gruppetto di personaggi riuniti in conciliabolo. Si salta nel tempo e nello spazio. Siamo in Italia, appunto, probabilmente a Ferrara, come è stato suggerito da alcuni dettagli delle architetture che fanno da sfondo. I tre chi sono? Molti libri sono stati scritti, in due secoli di studi, ma nessuna definitiva interpretazione è oggi unanimemente condivisa. Il personaggio di sinistra è con ogni probabilità il cardinale Bessarione, il più noto e valente degli intellettuali greci al seguito dell’imperatore e del Patriarca Giuseppe II nel primo concilio ferrarese, poi nominato cardinale dalla chiesa latina e primo degli animatori della politica filobizantina in Italia. Al centro, forse, Tommaso Paleologo, fratello minore di Giovanni VIII e di Costantino XI, che perse Bisanzio nel 1453, l’ultimo erede al trono dell’impero romano d’oriente ad avere qualche possibilità di riprenderselo.

Infine a destra, probabilmente Niccolò III d’Este, padrone di casa del Concilio di Ferrara.

La prospettiva, imparata da Piero sulle pagine del De pictura dell’Alberti, ammirata nelle prodigiose linee del Brunelleschi, negli affollati campi di battaglia di Paolo Uccello, diventa lo strumento geniale e rivoluzionario con cui si rifonda ogni significato della rappresentazione. Si può rappresentare il Tempo, in prospettiva, si può rappresentare la Storia, cioè il fluire dinamico della narrazione, del racconto. La prospettiva diventa, nelle mani di Piero, un teatro complesso dalle potenzialità illimitate, straordinarie, uniche e assolutamente inedite

La scenografia è pronta, dunque.

Ma Piero cosa sceglie di metterci dentro? Quale sarà il tema narrato dalla sua pittura?

Ecco che ci avviciniamo al tratto vero e più profondo che ha reso questo artista immortale.

Perché la geometria euclidea e pitagorica scoperta nella natura -e riprodotta fedelmente nella sua rappresentazione armonica- può essere un linguaggio freddo, che uccide. Potrebbe tracciare i confini di uno spazio in cui non ci sentiamo compresi o, peggio, in cui ci sentiamo disperatamente alieni e proviamo l’impulso, il desiderio di uscirne. Due rette che tendono all’infinito portano al Cielo, lontano da casa, e i numeri del dio geometra rendono conto di un mondo organizzato e perfetto, ma non familiare. È questo che vede l’occhio di Piero?

No. Per nostra fortuna e sommo godimento, no.

Piero vede la realtà umana come gli si presenta, tremendamente complessa, contraddittoria, in precario equilibrio tra luce e ombra, tra disperazione e speranza. Piero riesce con un colpo di genio a produrre una sintesi assoluta tra rigore nella rappresentazione e drammaticità del rappresentato. È l’Umanesimo Tragico di Piero, come è stato definito da Massimo Cacciari tra gli altri, con un’espressione di straordinaria efficacia.

Tra tutti i suoi capolavori, quello in cui si comprende meglio questa meravigliosa capacità di sintesi e quello che in molti considerano il paradigma della sua poetica, è il Cristo risorto del Museo Civico di Borgo San Sepolcro (Fig. 2), un affresco per il palazzo dei conservatori, realizzato poco dopo la Flagellazione, nel 1460 circa. Andatelo a vedere, se potete. Il Borgo è un luogo dell’anima, degno di un pellegrinaggio, a una trentina di chilometri da Arezzo, in quella verde Val Tiberina che conduce, attraverso aspri valichi, oltre l’appennino, verso una delle capitali del Rinascimento italiano, la città ducale di Urbino.

Il Risorto non è un Cristo come si vedevano allora, un Cristo gotico o fiammingo. Non è coperto di sangue, straziato: ha solo un modesto taglio al costato. Non è sfinito, pallido, smorto, non ha nulla del cadavere, non suscita pietà né stupore. Risorge, e quindi rivela natura divina, ma è ancora fatto di carne, è un uomo, robusto, vigoroso, statuario. Ha un piede ben piantato sul bordo di marmo dell’avello e si appoggia di peso sul suo vessillo. Dichiara la sua risoluzione a non arrendersi, dichiara il suo progetto di lotta, ma intorno non trova amici e parenti ad accoglierlo, non folle estatiche e adoranti. Risorge e vede la realtà: vede i dormienti, i rassegnati, gli illusi dal sonno della ragione e della fede. Vede un manipolo di sconfitti, di senza speranza. Lui è morto per loro e quelli dormono. È morto per affermare un’idea, calpestata da quei corpi sdraiati, pesanti e confusi.

Ma è lì. Indomito, tragico, concentrato, compreso in se stesso, consapevole di questa tragedia.

Emerge dalla terra con piglio risoluto, perché ha una missione da cui niente può distoglierlo: svegliare quei morti, perché chi dorme quel sonno è come fosse morto.

Perché non vi sia dubbio su cosa sia realtà e cosa favola, la rappresentazione avviene nel rigore prospettico più assoluto: è scientifica. Ma, pure qui, come nella Flagellazione, la prospettiva accoglie anche volumi, forme umane, colori, non solo edifici di pietra. Li colloca nello spazio ben ripartito e li fa vivere di vita autonoma, perché la vita non è solo un numero o un rapporto, ma soprattutto è valore e coraggio, dignità e responsabilità. Un messaggio potente, stentoreo come un grido di guerra.

L’impermanenza dell’esistenza umana suscita angoscia profonda, mina gli edifici più solidi, mette paura. Trasforma nobili cavalieri, indomiti combattenti della vita in larve molli e rassegnate, che cedono a cattive suggestioni, a tendenze radicate, a debolezze, ad illusioni. Cedono al demone della sfiducia, che non crede più nel valore della vita, nella sua forza eterna e pervasiva.

L’incubo strisciante del declino dell’era cristiana infestava gli animi più di quanto la peste nera non flagellasse i corpi. Un’epoca di transizione, in cui molti rispondevano cadendo, tremando, dubitando, temendo il nemico alle porte. Senza capire, senza vedere il vero nemico, quello che dentro erode e confonde, trascina verso il basso, nel buio della tomba.

In questa epoca di crisi il simbolo è l’uomo, ma non un uomo pacificato e solo luminoso. Un uomo combattuto, in lotta interiore con i suoi demoni tremendi, per il quale ogni decisione è un bivio: si può scegliere ma il demone non è mai vinto per sempre, la battaglia deve essere rinnovata ogni giorno, è l’uomo duplice di cui parlava Petrarca di sé, uomo doppio ma … libero, perché può decidere… La puoi dimostrare questa libertà? Questo si chiedevano i grandi umanisti.

Piero risponde con la sua straordinaria pittura.

Il suo occhio acuto, sempre in viaggio, volava alto, instancabile misuratore di fenomeni, insuperabile creatore di meraviglia. E ricordava a tutti, per sempre, che dalla terra si può riemergere, per volare verso l’alto, per riscoprire la bellezza del mondo, per risvegliare i compagni di viaggio, per trasformare il veleno della sofferenza e della nostra imperfezione nella sublime bellezza del cambiamento, di cui si può e si deve non avere paura.

Figura 1. Piero della Francesca, Flagellazione. Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.
Figura 2. Piero della Francesca, Il Risorto. Museo Civico di Borgo San Sepolcro.