Tra terra e cielo

Tra terra e cielo

Filippo Brunelleschi, 1377-1446

Cupola di Santa Maria del Fiore, Firenze

Tra terra e cielo, oggi a Firenze, c’è una Cupola stupefacente, che prima dell’avvento di Filippo di ser Brunellesco, non c’era.

Filippo è nato nel 1377, proprio a Firenze. Fu orafo, scultore, ottico, fisico, matematico, architetto, ingegnere, amico e sodale di Donatello, Masaccio, Ghiberti, Leon Battista Alberti.

Aveva una mente inquieta, la mens impiger di cui parla Lucrezio, al cui lento ma progressivo lavoro tutto gli uomini devono… navi e colture dei campi, mura, leggi, armi, strade, vestiti, carmi, dipinti, statue d’un’arte matura (De rerum natura, V, 1148-1153)

Mente ha la stessa radice indoeuropea di misura, giacché pensare è misurare le idee e Filippo non faceva altro che misurare la realtà che aveva davanti, per pensarla meglio, per capirla, per coglierne l’essenza. Passò molto tempo a Roma, col suo amico di bisbocce Donatello, a cercare colonne diroccate, capitelli, architravi, volte e basamenti, resti di un’architettura romana che era stata l’arte di dare casa all’uomo, cioè il suo posto nel mondo. Ma non voleva copiare, né idolatrare, come nessuno dei grandi viaggiatori della filologia umanistica voleva in effetti fare. Poliziano non studiava Cicerone per esprimersi come lui o per esprimere lui. Poliziano voleva il latino di Cicerone per esprimere meglio l’uomo del suo tempo, cioè se stesso, la propria anima complessa, con soluzioni tecniche, linguistiche, retoriche collaudate nella loro eleganza ma adattate plasticamente a una realtà nuova e radicalmente diversa da quella antica.

Così Filippo, che scavava nelle viscere di Roma come in una miniera, a caccia di soluzioni progettuali idonee a risolvere la sua realtà, quella del suo tempo.

E nella sua realtà c’era un incubo, nel cuore di Firenze, un problema di titanica complessità che aveva piegato le capacità e l’orgoglio di generazioni di concittadini. Un immenso pozzo poligonale, dagli altissimi contrafforti, voluto da Arnolfo di Cambio, inghiottiva con vergogna da più di un secolo le ambizioni dei fiorentini. Il corpo gigantesco della grande basilica dedicata a Maria, rimasto senza copertura, senza un cappello, un’anima. Morto il Maestro, nel 1302, nessuno aveva potuto completarne l’opera, perché, molto semplicemente, non si poteva fare: non esisteva soluzione percorribile a quel tipo di problema architettonico.

Né calotta sferica, né piramide, né altra forma geometrica solida conosciuta, avrebbero potuto colmare il gigantesco vuoto sfidando le leggi della fisica.

E allora? E allora niente.

Filippo misurò tutte le idee del mondo antico, studiò il sesto acuto, il quinto di sesto, il quarto di sesto, li riprodusse nella sua mente un numero incalcolabile di volte a colmare l’abisso dello spazio, guardò dentro di sé, tra i numeri che gli vorticavano furiosamente nell’anima, indagò, scandagliò il profondo in interconnessione con il mondo, e vide quello che serviva.

Ebbe l’idea. Cioè superò un confine e immaginò ciò che nessuno prima aveva osato immaginare, oltre, forse, al solo Arnolfo, che però era morto senza dirlo ad anima creata.

Ma Filippo non ebbe solo questo, di merito. Fu capace anche di crederci, in quella sua folle e favolosa idea, e di dedicare la vita a realizzarla, contro tutti, gli invidiosi, gli scettici, i gelosi, gli stupidi.

Perché dove c’è una mente che partorisce un’idea, sempre si riuniscono gli stupidi in capannelli minacciosi, scoperti nella propria fragilità, nella propria inadeguatezza, che reagiscono con il disprezzo, con la calunnia. I fiorentini lo umiliarono, lo derisero. Naturalmente, non lo compresero. Come avrebbero potuto, se nessuno, neanche Ghiberti, neanche Donatello, aveva un millesimo del suo genio per quel genere di cose? Nessuno poteva vedere quel che vedeva lui.

Ma Filippo non si arrese e fece di quella solitudine una bandiera, la difese, la custodì come un tesoro. Al punto che non volle disegnare mai nel dettaglio ciò che aveva concepito e come intendesse realizzarlo. Non aveva bisogno di un progetto, perché aveva la sua Idea e ad essa dedicò ogni sua energia mentale e fisica, affrontando i mostruosi problemi di ingegneria, fisica, matematica, che la formidabile opera proponeva.

Uno dopo l’altro li risolse tutti, trasformando l’impossibile in possibile.

Oggi, sulla Città del Fiore veleggia quella Cupola, un tetto rosso di mattoni volanti contro il cielo blu, da quasi 600 anni (Fig. 1).

È questo il vero prodigio dell’essere umano, il tremendo miracolo, il thauma dei greci. La complessità della sua anima può abbassarlo alla più infima delle stupidità, alla malvagità di chi è peste per il suo stesso genere, di chi denatura natura, ma anche elevarlo alla creazione più assoluta. L’essere umano non è definibile, non sta. L’uomo è un compito, avrebbe detto secoli dopo Nietzsche. È tutta la gamma del possibile e deve decidere ogni giorno dove vuole stare, cosa vuole essere.

Filippo scelse. E nessuno oggi si ricorda più dell’orrido pozzo rimasto scoperto per un secolo e mezzo.

Ma questo vale per tutti. In ognuna delle nostre vite esiste una voragine, si può contemplarla per una vita, sentendosi minacciati dal freddo alito del buio che da essa promana, o decidere di ricoprirla con un tetto favoloso. È possibile. Possiamo innalzare la nostra cupola impossibile su qualsiasi buco nero la vita ci presenti. Possiamo trasformare ogni baratro famelico che sembra roderci dentro, in un meraviglioso edificio di cui il mondo si ricordi per sempre.

Tra cielo e terra, il nostro capolavoro possiamo realizzarlo solo noi.

Figura 1. Filippo Brunelleschi, Cupola di Santa Maria del Fiore, Firenze.