Sacro come un uomo

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, 1571-1610

Crocifissione di Pietro, Vocazione di Saulo,

Cappella Cerasi, Chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma

In quel decisivo anno del Signore 1606, quando sembrava che le migliori intelligenze artistiche europee affluissero a Roma misticamente attratte dalla rivoluzione caravaggesca mentre il genio lombardo doveva allontanarsene precipitosamente per sfuggire al boia, un bimbo di appena otto anni vi si trasferiva da Napoli con tutta la famiglia.

Mano nella mano con suo padre Pietro Bernini, scultore talentuoso e molto affermato, il piccolo Gian Lorenzo si lasciava investire stupefatto dalle infinite suggestioni artistiche e culturali che la città papale proponeva in quel movimentato inizio di secolo.

Pare certo che in una mattina di freddo inverno abbia compiuto un devoto pellegrinaggio nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo, all’assetto architettonico della quale, in età adulta ed evidentemente non per caso, avrebbe poi contribuito da par suo. Quel giorno il vero scopo della gita era senz’altro di natura religiosa, ma non nell’accezione più comune del termine. Non si trattava cioè di partecipare a una funzione nella chiesa agostiniana, ma piuttosto di contemplare, con religiosa devozione appunto, il miracolo figurativo realizzato in una piccola cappella in fondo all’edificio, dedicata alla famiglia di Monsignor Tiberio Cerasi, potente amministratore delle finanze vaticane.

Al centro della piccola nicchia sulla sinistra del transetto, una stupenda pala d’altare di Annibale Carracci e ai due lati, quasi invisibili all’osservazione frontale, due monumenti della rivoluzione caravaggesca: la Crocifissione di Pietro e la Conversione di Paolo.

Tiberio Cerasi aveva comprato la cappella nel 1600, per farla sistemare dall’archistar più in voga del momento, Carlo Maderno, che aveva un poco ampliato il minuscolo spazio semicircolare originale, ricavando le tre piccole pareti sulle quali andavano collocate le opere pittoriche: quella centrale, per l’altare, e le due laterali, dedicate a Pietro e Paolo. In quei mesi, a Roma si faceva un gran parlare di due pittori emergenti, giunti da poco nella Capitale dalle brume delle Padania: Annibale Carracci, bolognese, il più anziano dei due, che era ancora al lavoro in quello che sarebbe stato il capolavoro della sua vita, il ciclo di affreschi di Palazzo Farnese; e Michelangelo Merisi di Milano, neanche trentenne, reduce dal trionfo della sua prima commissione pubblica, la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, con il ciclo dedicato a San Matteo.

Insomma, il buon Tiberio, a cui ducati sonanti e protezioni politiche non mancavano certo -ma che non ebbe la gioia di contemplare l’esito della sua generosa commissione, perché morì nel luglio del 1601 a lavori ben lungi dall’essere ultimati- aveva voluto per la sua cappella funebre il meglio che il mercato offriva. E l’aveva ottenuto. Il vero colpo da maestro fu l’aver messo in competizione i due migliori pittori del tempo, giovani e molto ambiziosi, entrambi impazienti di vedere il proprio esuberante talento consacrato definitivamente.

Caravaggio era il più giovane e meno famoso dei due e aveva tutto ancora da dimostrare: doveva ad ogni costo raccogliere l’ardua sfida di competere con il più esperto Carracci e far vedere a tutti di cosa fosse capace.

Carracci segnò il primo punto, realizzando in breve tempo una pala stupenda, che oltretutto godeva della collocazione più prestigiosa, sulla parete frontale, sopra l’altare. L’Assunzione della Vergine di Annibale (Fig. 1) è un vero capolavoro. Una Maria incantevole, dal viso fresco e paffuto, balza agilmente fuori dal sarcofago, le braccia tese e aperte sopra il capo inondato di luce dorata; una coreografia singolare, per quel genere di rappresentazione, di forza inaudita: il ginocchio sinistro, su cui grava il corpo nello slancio, è flesso e sporge in avanti, uscendo dal piano del dipinto verso l’osservatore stupefatto. La narrazione del gesto atletico è completata dal delizioso dettaglio del piede sinistro, che poggia sulla testa di un gruppetto di cherubini alati, come fossero un trampolino mistico che sospinge Maria verso il suo posto in cielo. Nel registro inferiore, marcato dal bellissimo bordo di marmo dell’avello, si aprono ad angolo retto le due diagonali degli apostoli Pietro e Paolo, parallele alle braccia di Maria e una fontana di fuochi d’artificio: mani e piedi in scorcio che bucano la dimensione piana, riflessi della luce divina a proiettare ombre e a scavare profondità, drappeggi in dialogo cromatico con le tinte della parte superiore. Una meraviglia assoluta, che cita esplicitamente Michelangelo e Raffaello e proietta a buon diritto il suo autore tra i più grandi del secolo.

Caravaggio non poteva essere da meno: al capolavoro di Carracci doveva rispondere con due creazioni sensazionali. Vista l’Assunzione del rivale e preso atto dell’angustia del luogo, con una di quelle decisioni tipiche della sua personalità impulsiva e spregiudicata ai limiti dell’insensatezza, ritirò i due lavori che in un primo momento aveva eseguito su tavole di cipresso: una crocifissione di Pietro e una vocazione di Saulo, che lui stesso riteneva inadeguate, e ne dipinse altre due, stavolta su tela. Sono le opere che ancora oggi possiamo ammirare in Santa Maria del Popolo.

A destra dando le spalle all’altare, il vecchio Pietro viene crocifisso a testa in giù, come da lui stesso richiesto (Fig. 2). Carnefici senza volto si affannano intorno alla croce, la innalzano con fatica: è il loro lavoro. La banalità del male si affaccia su Roma, sul mondo intero: in un istante, 400 anni di pittura sono spazzati via dal genio visionario di questo trentenne lombardo. Un palo di legno di cui si distinguono persino le venature si incrocia con l’asse verticale dei carnefici, croce nella croce a semplificare il complesso. È una pittura naturalistica ma non realistica: dove mai si vedrebbe questa luce? È il cinema prima dei fratelli Lumière: finzione reale di realtà rappresentata. È pittura di suoni, come lo scricchiolare del legno, il tendersi delle corde, il gemere del vecchio; è pittura di odori, quello del sangue e del sudore, della terra e della bile. È meta pittura e meta cinema perché il protagonista della scena guarda al di fuori e cerca conforto, volge il suo lamento oltre il suo mondo, torce il collo in uno spasmo e invoca la misericordia di Maria, della folgorante Assunta di Carracci alle sue spalle.

Dall’altra parte, la sequenza continua. Cambia la scena, si viaggia da Roma alla via di Damasco (Fig. 3). Saulo è caduto, ha sentito la voce, ha visto una luce, ma l’ha vista solo lui e continua a vederla, dentro di sé. Noi abbiamo di fronte solo le terga muscolose di un cavallo. L’uomo a terra è folgorato dalla grazia, apre le braccia e risponde, anche lui, a Maria, senza parlare, senza aggiungere altro, sotto lo sguardo perplesso e brutale di un palafreniere. Luci e ombre, uomo e bestia, grazia e brutalità… le croci si moltiplicano in un mondo difficile, quasi impossibile, ma vivo…

Un film, un colossal con figure in movimento attraverso lo spazio fisico e mentale, una rappresentazione incredibile, senza precedenti nella storia, che avvolge, include e surclassa la pur notevole pala di Carracci, che nella sua leggiadria pittorica, nella sua intelligenza, rimane comunque un dipinto assolutamente convenzionale per quei tempi.

E non è difficile allora immaginare il piccolo Gian Lorenzo in quel minuscolo cinema semibuio, al lucore tremolante delle candele, la bocca socchiusa, lo sguardo assorto in contemplazione di fronte a quelle immagini potenti, ascoltare la sommessa voce del padre che gliene raccontava il senso e la suggestione delle forme e dei colori trascinarlo lontano, nel tempo e nello spazio, in mondi antichi e crudeli, in mezzo a martiri e aguzzini.

Ma perché quelle immagini colpivano quel bimbo, facendogli battere il cuore nel petto? Perché non stancavano il suo sguardo? Perché avevano quella forza straordinaria, che ancora oggi rimane integra, intatta, eternamente evocativa?

Forse, e qui dobbiamo necessariamente entrare nel campo delle ipotesi, forse per la totale assenza del sacro, del mistico, del sovrannaturale in quelle composizioni fatte solo di uomini, animali, sentimenti, emozioni, affetti terreni.

Cosa c’è di sacro nel culo muscoloso di un cavallo che vi volge le terga e sovrasta un soldato romano caduto e mezzo stordito?

Cosa c’è di divino nel martirio di un povero vecchio, che soffre, incredulo, impotente, mentre tre sgherri qualunque, che neanche si vedono in viso, sudano, brigano, si affannano, faticano per issare la croce, tra bestemmie, sinistri scricchiolii e terribili gemiti?

Dove si trova il divino? Nei quadri non c’è.

Come non c’è in mille altri capolavori di Caravaggio. Nella Madonna dei Pellegrini (Fig. 4), in Sant’Agostino, che si affaccia sull’uscio di una casa di Roma, vestita come una qualunque donna del popolo, bella, sensuale come la Lena Antognetti, di professione prostituta, che ha fatto da modella, e si mostra a due laceri passanti, lerci, prostrati, con in braccio un bimbo nudo di almeno 3 anni, come se avesse appena interrotto le faccende domestiche per accogliere amorevolmente le loro preghiere.

Non c’è nel formidabile Riposo durante la fuga in Egitto (Fig. 5), dove Maria è una ragazzina esausta che cade addormentata, Giuseppe un vecchio intimidito, dubbioso, fragile, quasi stufo del carico impossibile che si è accollato e persino l’apparizione angelica è raccontata con linguaggio che più terreno non si potrebbe, con quella conturbante ambiguità da, con quel piglio impositivo di chi ha un lavoro da compiere, il conforto dei pellegrini, ma pretende collaborazione (“reggimi gli spartiti, vecchio!”).

Non ce n’è traccia nella sublime Maddalena penitente della Galleria Doria Pamphili di Roma (Fig. 6), che in realtà è solo (solo?) un ritratto della bella Anna Bianchini, come Anna era pure la Maria dormiente nella Fuga. È Anna, la donna di strada Anna, che era più vera di mille madonne, che evidentemente emanava una luce di bellezza mentre dormiva e sempre così era ritratta, non in pose artefatte di mistiche invocazioni, deliqui estatici, deliri di posseduta dal trascendente. Anna, non Maddalena.

Ma… non è vero che non c’è il divino. In realtà c’è eccome.

Ed è collocato in quanto di più umano esiste in un quadro, o meglio nella relazione dinamica del quadro con il mondo: l’occhio dell’osservatore, senza il quale un quadro non esiste. Quel maledetto genio di Caravaggio lascia il sacro, il divino, il profondo senso delle storie umane che descrive, alla lettura, alla visione, alla interpretazione di chi guarda. All’uomo che guarda dà il potere di trovare, immaginare, percepire il divino nell’Uomo che egli ritrae.

È il culmine di una visione umanistica, straordinaria, della vita e della realtà. È il culmine del viaggio intrapreso dall’Alberti, con il suo occhio alato, e, soprattutto, da Piero. Piero e l’umanesimo tragicamente dignitoso delle sue figure sacre. Il Cristo risorto di Borgo San Sepolcro (Fig. 7) non parla, non dice, non manifesta. Non vola, non predica, non incede in mezzo alla luce. Al contrario. Pone il piede sul bordo dell’avello, appoggia con forza un vessillo. Si alza, si erge, con i piedi ben piantati per terra. È assorto, serio, concentrato nel suo compito, è totalmente umano, terreno, e lascia a chi osserva la facoltà di sentire la sua divinità. Una divinità che esiste nella dignità con cui affronta il destino, in mezzo a una folla di deboli che non vedono nulla, né il suo sacrificio, né le possibilità che offre loro, perché giacciono addormentati.

Una divinità che esiste nell’occhio di chi guarda.

Non è meraviglioso? Non sentite la profondità della visione?

Questo universo di umanità è colmo di emozioni, sentimenti, aspetti complessi di una realtà complessa in cui la sofferenza certamente recita un ruolo importante e centrale. Ma che sia o meno un ruolo da protagonista dipende esclusivamente da noi, noi siamo l’occhio dell’osservatore cui è affidato il compito di scorgere il divino nelle vicende umane.

Cosa c’è di più sacro della decisione, del coraggio, della volontà, della dignità di trasformare le sofferenze in crescita, le cadute in spinta verso l’alto, le fatiche in occasioni, le sconfitte in esami di realtà, le ferite in risorse, le perdite in guadagno, la sfiducia in più profonda comprensione della vita, la solitudine in ricchezza interiore?

Il sacro è in ognuno e da ognuno, come un occhio di bue proiettato sul mondo, può essere percepito in ogni fenomeno si mostri a noi.

Il piccolo Gianlorenzo l’aveva capito. E poco più tardi, appena ha avuto la forza di tenere in mano uno scalpello, ce l’ha dimostrato.

Figura 1. Annibale Carracci, Assunzione della vergine. Chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma.
Figura 2. Caravaggio, La crocifissione di Pietro. Chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma.
Figura 4. Caravaggio, Madonna dei Pellegrini. Chiesa di Sant’Agostino, Roma.

Figura 5. Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphili, Roma.
Figura 6. Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphili, Roma.
Figura 7. Piero della Francesca, Il Risorto. Museo Civico di Borgo San Sepolcro.