
Molti anni fa, leggendo uno dei romanzi minori di Hemingway, quel Fiesta mobile che quasi non riuscì a terminare e molto faticò a scrivere, mi imbattei in una di quelle perle rare della letteratura che emozionano il lettore innamorato. La recensione di un romanzo vero, nel romanzo.
Hemingway citava un libro russo dell’’800, di un autore che mai avevo sentito nominare, come il vertice della narrativa di ogni tempo; lo diceva senza grande enfasi, con quel suo stile sobrio ma scolpito, con quel suo tono definitivo e convincente di uomo duro che ne sa. Amavo Hemingway come un maestro assoluto, al punto di perdonargli quegli ultimi ripetitivi romanzi strappati alla depressione alcolica. Amavo quel suo parlare di ciò che conosceva davvero, per esperienza diretta e profonda: pendevo dalle sue labbra in tema di caccia, pesca, guerra, tori e amori, perché io non ne sapevo nulla e ascoltavo volentieri in silenzio religioso la sua voce, essenziale e dritta al succo delle cose come un graffito su un muro.
Quella volta, però, mi aveva parlato di altro, aveva messo piede in un mondo anche mio, che anch’io frequentavo da assiduo viaggiatore: mi parlava di letteratura, della prosa, della lingua, del talento di un altro scrittore. Parlava, cioè, in quel breve passaggio, proprio di ciò che sapeva fare meglio nella vita, di ciò che lo aveva già reso immortale: scrivere. E lo faceva riconoscendo in un Autore per me allora ignoto un forza che lui stesso ammetteva di non avere, una grandezza che lui sapeva di non aver raggiunto. Senza invidia, con amore, con rispetto, come si conviene a un saggio che incontra un genio. La forza magnetica di quelle poche righe mi ipnotizzò.
Era come se Diego Armando Maradona parlasse in toni estatici della carriera di un altro calciatore e ne descrivesse appassionatamente un gol straordinario, soffermandosi sulla qualità del tocco, sulla pregevolezza dello stop, sulla forza della progressione palla al piede, sulla rapidità del dribbling e sulla precisione del tiro in porta, enfatizzando ogni dettaglio. Impossibile resistere alla tentazione di andarselo a cercare, quel gol. E infatti io cercai il libro, lo trovai, lo lessi d’un fiato una volta.
Poi lo rilessi, incredulo: Hemingway aveva ragione, e io fin lì non avevo saputo nulla di quel mostruoso capolavoro. Fu quello il mio primo travolgente incontro con Ivan Sergeevic Turgenev e le sue ‘Memorie di un cacciatore’.
La birra scura, nel pub fumoso in cui mi ero cacciato, ad Edimburgo, scendeva lieve, pagina dopo pagina, racconto dopo racconto. Vedevo scorrere davanti a me la steppa sconfinata, coperta di neve nei lunghi inverni e ondeggiante di grano dorato nelle fertili estati russe; gli uccelli diversi, centinaia per ogni stagione, di nomi comuni e di altri mai uditi, e le piante, gli alberi delle boscaglie, il vento profumato di pioggia, il fumo dei camini, le corse furiose dei cavalli dei padroni, le chiazze di fango e sudore sui camiciotti sdruciti dei servi. Ogni tanto mi scuoteva il colpo di fucile di un cacciatore solitario, il cigolio di una porta in una locanda gremita, il clamore di un alterco per una donna, nell’aia di una fattoria. Riga dopo riga, masticavo a cucchiaiate abbondanti quella prosa ricca e mi sfamavo; ma non bastava, ne volevo di più.
Un sentimento religioso, di solenne sacralità, pervadeva quelle pagine e non ti permetteva di separartene. Di più, si percepiva distinto il sapore, così raro, della perfezione. Natura, vicende umane, vita, morte, animali liberi e prede braccate, servi e baroni, giustizia e angheria, lusso e miseria, coraggio, eroismo, viltà, rassegnazione; tutto impastato nel fango della Steppa che aderiva tenace agli stivali di cuoio del cacciatore narratore, con armonia ed equilibrio incredibili, impossibili. Una coerenza dall’inizio alla fine, senza cadute; una scrittura più vivida di un film, più immediata di un dipinto, più sincera di una foto.
Riconoscevo, in quel cerchio perfetto che girava su se stesso senza scosse, la misteriosa, magica melodia che mi aveva rapito spesso nei passaggi migliori del vecchio Hem, in alcuni suoi romanzi, in alcuni suoi racconti, ove, guarda caso, la grandezza della natura era quinta, palcoscenico e sipario alle dolorose vicende dei personaggi umani, in un tutt’uno quasi inestricabile.
Ove la vita o la morte di un animale o di un miliziano spagnolo erano scolpite nel marmo di un pugno di righe, come parti di un tutto che esiste anche se non si comprende, che ha delle regole semplici ed eterne, che chiunque può vedere senza che se ne parli troppo, che ognuno sa senza che lo si ripeta.
E fu così che ripensai al vento afoso di un triste pomeriggio sulla Sierra, ai colori accesi di un tramonto sul Kilimangiaro, e vi ritrovai, finalmente, il saluto della grande madre Russia a due sconosciuti eroi americani, in un salto prodigioso di secolo ed emisfero che solo la grande Letteratura permette di fare.
Memorie di un cacciatore, Ivan Turgenev, BUR