Martini non è (solo) un cocktail
Simone Martini, 1284-1344
Annunciazione, Galleria degli Uffizi, Firenze
Nella nostra repubblica democratica fondata sull’apericena, l’eleganza vintage di un buon Martini con oliva, agitato, non mescolato, offre ancora una discreta possibilità di distinguersi, anche se non si possiede un’Aston Martin ma una semplice Fiat Panda.
In verità, il fascino virile e un po’ stereotipato del cocktail preferito dagli agenti segreti di Sua Maestà britannica è nulla rispetto alla possibilità di deliziarsi l’anima e il cervello che offre l’incontro con un altro Martini, quello vero: Simone, genio folgorante della pittura senese tra Due e Trecento, capace di procurare un’esperienza sensoriale ed emotiva unica, molto più forte di qualsiasi miscela di liquori.
Se proprio non possiamo evitare l’apericena, allora, limitiamoci a un paio di bicchieri di buon rosso toscano e procuriamoci un ingresso alla Galleria degli Uffizi: ci attende un viaggio psichedelico attraverso i secoli, per incontrare e scoprire l’ispirazione originale di questo semisconosciuto pittore italiano, in grado di procurare ebbrezza più di un distillato, di vestire un’idea con forme eleganti più di un sarto della City e di suscitare torbide emozioni più di un’agente della Spectre dagli occhi verde foglia.
Simone Martini nasce a Siena e vive in Toscana nell’epoca magica in cui lo Spirito sublime dell’arte decide di prender di nuovo stabile dimora nella Penisola, dopo la lunga migrazione di secoli tra le nebbie del nord dell’Europa, seguita alla caduta di Roma.
In questo contesto ricco e stimolante fa la sua comparsa il giovanotto senese, contemporaneo di Giotto di Bondone ma più giovane di 17 anni, e come lui dotato, insieme, di talento ultraterreno e intuito sublime per tutto ciò che aiutasse ad esprimere il Bello.
Muove i suoi primi passi avendo a riferimento la ricchissima tradizione pittorica della sua terra e il magistero del suo più luminoso interprete, Duccio di Buoninsegna, Simone si incammina ben presto su una via autonoma, che accoglie le opposte suggestioni di questi straordinari maestri, Giotto da una parte e Duccio dall’altra, ma le rielabora con l’originalità e la personalità proprie di una sensibilità squisita.
In particolare, il parallelo con Giotto aiuta a comprendere meglio Simone. Se assumiamo che l’ispirazione che in quei decenni si andava affermando è tutta intorno alla poetica dell’Uomo, possiamo schematicamente affermare che Giotto fu il massimo interprete di una narrazione terrena, Simone quello di una lirica celeste. Giotto scrive in prosa e racconta, Simone scrive in versi e canta.
Bisogna intendersi bene, tuttavia. Ciò che interessa a Martini non è il vapore impalpabile della divinità, ma quell’area della natura umana che ne incarna il valore più profondo e nobile. Ciò che di divino c’è nell’uomo. Simone predilige un registro alto o altissimo per trattare una materia preziosa e fragile come le ali di una farfalla. Come qualche anno più tardi i primi umanisti e come il suo amico e contemporaneo Francesco Petrarca, Simone compie una ricerca linguistica di straordinaria raffinatezza, non per segnare una distanza con l’interlocutore o per rifugiarsi in un’algida astrazione, ma perché convinto di questa necessità dal rispetto che ha per il tema da trattare.
La complessità umana è bellezza e per raccontarla adeguatamente ci vuole un linguaggio all’altezza. Come in Petrarca, la forma diventa essenza: per questo Simone attinge a un talento multiforme ai limiti del virtuosismo, integrando prodigiose abilità di miniatore, smaltatore, orafo nella sua formidabile struttura portante di pittore geniale.
Nel 1333, già affermatissimo, Simone Martini completa per l’altare di Sant’Ansano nel Duomo di Siena una straordinaria pala d’altare destinata ad essere ricordata come uno dei massimi capolavori del secolo e, forse, della Pittura italiana e oggi conservata agli Uffizi (Fig. 1).
Il tema, convenzionale, è l’Annunciazione, che avviene al cospetto dei Santi Margherita e Ansano.
È una tavola di grandi dimensioni, due metri e mezzo per tre, dipinta a tempera. La cornice, in stile gotico, non è quella originale, purtroppo, ma nulla toglie alla bellezza di questo incredibile manufatto, al cui cospetto, in una delle prime sale del Museo fiorentino, si resta di sasso, senza parole.
Simone aveva amato l’opera di Cimabue e soprattutto di Giotto in quel monumento della cristianità che rappresentava in quegli anni il cantiere della basilica francescana di Assisi, i cui lavori di decorazione degli interni si protrassero per decenni.
La basilica non era solo una chiesa umbra, un luogo di culto caro agli abitanti di quelle regioni, ma un punto di riferimento per tutti i fedeli d’Europa, che giungevano da ogni dove in pellegrinaggio. Su di essa confluivano dunque anche maestranze, oggetti, stili, suggestioni e idee portate dal nord. Artisti gotici francesi, ad esempio, avevano realizzato le splendide vetrate della basilica superiore, nello stile di quelle della grandi basiliche gotiche dell’Ile de France. Ma soprattutto, quel centro della cristianità stava diventando una sorta di punto di origine della grande pittura dell’Italia centrale, per il lavoro in contemporanea di moltissimi grandi autori di diversa provenienza. Negli anni si avvicendarono, tra i più grandi, Cimabue, Duccio, Giotto.
Quando Simone Martini si affaccia su questa ribalta –non sappiamo esattamente in quale anno tra il 1315 e il 1330- i Maestri non ci sono, più ma hanno lasciato i loro lavori da ammirare e i loro allievi a lavorare. L’ambiente è imbevuto di raffinatezza gotica, soprattutto nel campo dell’oreficeria, attraversato dalla mirabolante novità della smaltatura translucida, che rendeva i pregiati oggetti destinati al culto o al lusso di pochi, veri e propri capolavori in miniatura.
Queste meraviglie sfavillanti della tecnologia estetica, riempirono gli occhi del giovane senese, che ne assorbì molte rielaborandole all’interno della sua tecnica pittorica. Fu lui, ad esempio, ad inventare la ‘punzonatura’, quella tecnica che consisteva nel decorare una superficie pittorica con timbri di forma geometrica in sequenze ripetute, impressi sulla patina non ancora seccata dell’affresco o del colore sulla tavola, procurando un effetto di screziatura, di movimento, frammentando il riflesso luminoso.
In Assisi, nella Basilica inferiore, Simone lasciò il segno di un’assoluta libertà del pensiero e originalità del tratto negli affreschi con le Storie di San Martino: con questa stupefacente realizzazione sembra voler dare un segnale fortissimo e chiaro ai contemporanei sulla autonomia della sua ispirazione (Fig. 2). Era necessario, dopo che Giotto aveva stupito il mondo con la sua pittura narrativa nella basilica superiore e, più tardi, agli Scrovegni.
Negli affreschi di Assisi, Giotto e Simone cantano come in un coro polifonico, ognuno con la sua voce ma su di un medesimo spartito. L’estro fisionomico di Simone, la sua abilità plastica, la sensibilità sublime per la caratterizzazione psicologica, l’intuito formidabile nella organizzazione dello spazio e nella correlazione spaziale di corpi ed oggetti, pagano senz’altro un tributo visibile e concreto al grande maestro fiorentino. Il suo è un intervento che si accorda all’altro, come dopo un colpo di diapason.
Si apprezza chiaramente, tuttavia, il timbro originale della voce di Simone. La forte suggestione gotica, interpretata in una maniera splendidamente personale, si manifesta nella riproduzione degli elementi architettonici, dalle bifore che incorniciano le figure dei santi, al baldacchino con guglie e arco a sesto acuto del miracolo del fanciullo; nella cura posta ai dettagli ornamentali, ai motivi raffinati dei panneggi, allo sfarzo dei paramenti; nell’utilizzo massiccio e sensibilissimo dell’oreficeria. Non si imbarazza, Simone, ad esser così vigorosamente gotico, in un mondo che tendeva inesorabilmente al superamento di quella sensibilità. Può farlo rivendicando la sua originalità perché è gotico a modo suo, con eleganza e sapienza narrativa, con un garbo e una raffinatezza tutti toscani, mostrando padronanza delle profondità prospettiche, senso dello spazio e del volume, grande capacità registica nella disposizione delle figure. Insomma, un tributo a quanto di magnifico il passato recente aveva offerto, con uno sguardo saldamente orientato a quello che un florido presente stava proponendo di innovativo.
Questa dichiarazione d’indipendenza stilistica, ad Assisi residualmente trattenuta nei toni per la contiguità ingombrante e al contempo ispiratrice con i capolavori giotteschi, può esplodere in tutta la sua gioia sfrenata e autentica nell’Annunciazione degli Uffizi.
Con queste premesse, gli ingredienti del formidabile cocktail, l’unico vero Martini italiano, sono tutti sul banco.
Innanzitutto, la coppa ghiacciata, il contenitore. Lo spazio del dipinto. Nel capolavoro degli Uffizi Simone ripudia ogni ‘giottizzazione’ degli spazi della sua pittura. Prospettiva, profondità, terza dimensione, naturalismo. Ingredienti che ha dimostrato di conoscere bene e apprezzare; intuisce che il futuro si orienta sempre di più nella loro direzione. Sono le premesse culturali alla prodigiosa esperienza intellettuale e creativa che vedrà protagonista assoluta Firenze nei primi anni del secolo successivo, con Pippo Brunelleschi, Alberti e Masaccio.
Non c’è motivo però di rinunciare alle straordinarie possibilità offerte dal linguaggio poetico, pur volendo conservare un forte sapore naturalistico alla rappresentazione.
Simone deve raccontare un fatto che ha per protagonisti una creatura umana, Maria, e una celeste, l’angelo che reca l’annuncio. E’ un fatto che deve essere percepito come realmente accaduto, ma allo stesso tempo inserito in un’atmosfera di mistica devozione, una materia assolutamente soggettiva e insondabile, controintuitiva. Deve dipingere non un mondo materiale di cose e persone, ma quel movimento profondo dell’anima umana che si chiama Fede.
E in questa impresa Simone si rivela un fuoriclasse assoluto.
Per esprimere l’ineffabile e il meraviglioso ci vuole un linguaggio sublime e indiretto, ci vuole una figura retorica capace di vestire l’idea dell’abito adeguato per le circostanze straordinarie. È quello che fanno i Poeti con le parole, è quello che fa Simone con la regia di quest’opera.
Si ferma, arresta per un attimo il corso della Storia e recupera un modello di rappresentazione utile allo scopo: cristallizza lo spazio in una dimensione astratta, ideale, usando come sfondo un foglio d’oro, di splendore omogeneo, compatto, sul quale si stagliano le figure antropomorfe. La luce è diffusa e non incide sulle vicende narrate se non per collocarle in un luogo sospeso tra terra e cielo: è la luce della misericordia divina, non del sole che scalda gli umani.
L’oro ferma il tempo e lo spazio e li fissa per un attimo in una bolla: tutto si svolge non fuori, nel mondo che non si vede, ma nel cuore dei protagonisti. Con un colpo di genio fulminante costringe chi guarda a concentrare l’attenzione su quanto accade dentro, nei cuori della creatura celeste e di quella umana, che resta l’unica vera connessione con il macrocosmo esterno.
E’ il miglior calice possibile per il suo straordinario cocktail: una coppa ghiacciata di cristallo che esalta il sapore del contenuto.
Ed eccoci dunque alla materia alcolica del quadro: due figure liquide, versate nella stessa coppa, ma non confuse l’una nell’altra. “Agitato, non mescolato” recita il comandamento bondiano per la ricetta del vero Martini. Vodka e Vermouth sono uniti in un sapore unico, ma mantengono una loro personalità individuale. Due ma non due.
L’arcangelo porta una notizia, esprime con la sua presenza, con la sua stessa natura, la volontà divina. È la rappresentazione di quella volontà, non della sua, autonoma: è la personificazione del progetto di Dio per quella donna e per l’umanità intera. Infatti, è della stessa tinta dello sfondo: una figura aurea, fantasmagorica. Le ali con piume di pavone, il mantello con disegni geometrici, la sfavillante veste bianca decorata a motivi ripetuti, con la tecnica orafa della punzonatura. È un’apparizione folgorante, ma non aerea; sublime al massimo grado possibile, ma non incerta. Anzi, resta ben poggiato al terreno: sta, con fermezza, corruccia lo sguardo severo, invia la parola attraverso l’aere dorato. Da dove muove quella disposizione dell’anima che ha nome Fede? Da un atto interiore imperioso, che richiede coraggio e risolutezza, decisione e fermezza.
In quel medesimo spazio profondo, scandito nel quadro dalle lobature goticheggianti, come navate di un tempio, convivono altre condizioni vitali, tutte insieme, in un mutuo possesso rutilante. C’è il senso della propria innocenza, della propria purezza, di una innata fragilità che si oppone all’idea di una missione. Il giglio dai lunghi steli campeggia al centro del quadro e separa l’angelo da Maria. Ha quasi dimensione e dignità di persona, anch’esso ha un ruolo, un senso, delimita il campo tra le due opposte tensioni di quel formidabile conflitto interiore.
Maria risponde, come in risonanza con quella voce. Si contorce, si difende istintivamente. Ha letto qualcosa, nel libro che stringe, qualcosa che non riusciva davvero a capire, prima che questa intuizione in forma di angelo d’oro fulminasse i suoi pensieri. Combatte perché è stupefatta, osserva se stessa e si vede diversa da un attimo prima, istintivamente resiste, sgomenta, prima di cedere all’estasi di quella rivoluzione interiore.
Maria, l’angelo, il giglio, sono insieme in ogni singolo istante di vita, mutualmente presenti e operanti, come la luce dorata che ogni cuore racchiude. Si correlano tumultuosamente, si intrecciano, emergono e sprofondano, si mescolano e si separano, in cerca di un centro, di un equilibrio. Il senso di tutto è in quel ramoscello, offerto dall’angelo alla Vergine: l’ulivo, segno di pace. Un frammento di materica concretezza nel centro di un sogno, la coerenza interna del quadro.
Il cocktail è servito: un Martini tutto italiano, agitato, non mescolato. Un Martini con oliva.
Buon aperitivo.

