Lucrezia

Agnolo di Cosimo detto Bronzino, 1503-1572

Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Galleria degli Uffizi, Firenze

“…L’immagine di una giovane donna magnificamente disegnata fino alle mani e magnificamente vestita, dal viso quasi livido, eppure bello di tristezza, e coronato da una massa di capelli tirati indietro e ammassati alti sulla testa che prima di sbiadire col tempo dovevano aver avuto una somiglianza di famiglia con i suoi. La dama in questione, comunque, con la sua leggera squadratura michelangiolesca, i suoi occhi d’altri tempi, le sue labbra tumide, il suo lungo collo, i suoi famosi gioielli, i rossi sbiaditi dei suoi broccati, era un grandissimo personaggio, ma non l’accompagnava la gioia” (Henry James, Le ali della colomba, BUR, Rizzoli, Milano 1997, traduzione di Beatrice Boffito Serra).

Di chi sta parlando Henry James?

Si tratta di Lucrezia Pucci, moglie di uno dei più facoltosi banchieri della cerchia medicea, Bartolomeo Panciatichi, di Pistoia.

Agnolo Bronzino l’ha disegnata, questa favolosa donna, nel 1540 (Fig. 1), e il romanziere angloamericano l’ha magistralmente descritta quattro secoli più tardi.

Evidentemente questo ritratto è molto più di un ritratto. È un paradigma di bellezza. Siamo quasi alla metà del 1500 e la grande rivoluzione culturale del Rinascimento entra nella fase della piena maturità: i suoi frutti assumono colori più caldi e complessi, sapori più articolati. Negli Asolani, pubblicati da Manuzio nel 1505, Pietro Bembo scrive che “la bellezza non è altro che una grazia che di proporzione e convenienza nasce, e d’armonia nelle cose…”, ma di questo equilibrio, ricercato per tutto il secolo precedente con esiti alterni, si comincia a perdere il controllo quando dal profondo della vita emerge prepotentemente la sua intima ambiguità, il suo mistero insondabile e inquieto, fatto di ombra insieme alla luce.

Leonardo, per primo, aveva percorso la via, seguito a distanza da altri. Bello è ciò che è profondamente umano, dunque anche ciò che rivela complessità, dimensione interiore.

Un’eco, questa, che nelle mani di alcuni ineguagliati talenti plastici, come Raffaello Sanzio o Sandro Botticelli, aveva rischiato di perdersi, sopraffatta dal suono dolcissimo della perfezione formale. Il seme però, era gettato e il piano era stato inclinato. La parabola fulminante di Giorgione, a Venezia, in quel primo ‘500 segnava un punto di non ritorno.

Bronzino si confronta con questa eredità e ne trae una soluzione personale, originale, splendidamente mediata.

Chi è Lucrezia? Una donna bellissima, di una bellezza in cui sensualità ed eleganza si mescolano indistinguibili, come nella forma di un’onda schiumosa che sorge e si frange, come in una breve raffica di vento, odoroso di mare e di essenze, alla fine dell’estate. Non ha la bellezza piena e un po’ piatta del giorno ancor giovane, però. Piuttosto ha il fascino e i colori della luce al tramonto.

È bella come la tristezza di chi sente la vita, impetuosa, indomita energia che muove gli strati profondi, ma sa che le sfugge e non riesce ad usarla.

Lucrezia era forte, Lucrezia era potente. Ricca, compiuta, stimata. Abile e dotta, sensibile, acuta.

Lucrezia era un vaso prezioso ricolmo, chiuso da un coperchio dorato. Un vaso chiuso perché Lucrezia aveva tutto, tranne ciò che al tutto dà un senso: la libertà. Libertà di essere e amare fuori da quel suo cognome. Reclusa in una veste di rosso broccato, sapeva e attendeva la fine.

Questo e molto di più, si legge nel suo immenso ritratto, dove una patina superficiale di perfezione luminosa contiene a stento la spaventosa tensione interiore. Non c’è nemmeno il più pallido tentativo di rappresentare quella ‘bellezza sovrasensibile’ che i neoplatonici avevano ornato di fiori, conchiglie e ghirlande del mito. Semplicemente perché Lucrezia è un essere umano reale e vivo, non una dea, e porta sulla tavola il meglio di quello che ha: la sua integrità. Questo di lei amiamo e ameremo per sempre: ci assomiglia davvero.

Amour dure sans fin” recita l’incisione sul prezioso collier d’oro massiccio che le cinge il collo. Un desiderio che rimane su un collare, un cerchio di metallo prezioso, chiuso intorno al flusso libero della vita. Forse Lucrezia è sconfitta, è perduta per sempre dentro la prigione che le hanno costruito intorno: ma non per questo ai nostri occhi si svela meno magnificamente umana.

Figura 1. Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi. Galleria degli Uffizi, Firenze.