Luce d’agosto

Non starò qui a parlare di Faulkner.

Non lo farò.

E il perché lo capirebbe pure un moccioso.


È una cosa semplice, ma forte, come certi cortili in terra battuta in mezzo ai palazzi, dove i bambini giocano a pallone, coi calzoni corti e le scarpe della scuola e qualche vecchia signora che guarda da un balcone, con una faccia di terracotta deformata da una smorfia di disgusto, e una più giovane che chiama da un altro balcone, mentre stende i panni a un filo tra una finestra e l’altra, chiama e chiama e non ottiene risposta, finché alza la voce, in un tono stridulo, secco, che non ammette scuse, e uno dei ragazzi infine si volta, si ferma in mezzo al cortile, come fulminato, e mesto si avvia all’ingresso del caseggiato.


Tutti sanno di cosa si tratta anche se non esiste più. Perciò non ne parlerò.

Perché è lui che parla di me, di noi, nel flusso disorganico delle parole accatastate come legna da ardere raccolta dal ciglio di una strada. Basta chiedere a quella ragazza che viaggia da sola, a piedi, col suo bambino in braccio, tra l’Alabama e il Tennessee. Non risponderà subito, ma la bella faccia di campagnola sicura del fatto suo ti dirà lo stesso tutto. In questa crepuscolare Luce d’agosto.

Faulkner non si racconta. È lui che racconta di noi.

Luce d’agosto, William Faulkner, ADELPHI