Lamentation

Questo libro mi è piaciuto perché ha tanti sapori diversi insieme, riconoscibili uno ad uno ma ben miscelati tra loro. Prima di tutto, non è solo un thriller.

E’ una grande Storia, con la esse maiuscola, di quella che racconta fatti, uno dopo l’altro, uno accanto all’altro, agganciati, con un ritmo che ti porta dentro; ma non solo per questo.

Racconta anche di persone. In molti thriller si capisce subito che le storie delle persone, a parte magari quella del protagonista, servono soprattutto a far funzionare bene l’intreccio. Non c’è il tempo di conoscerle bene, non c’è il tempo di capirle, perché il plot, la trama vertiginosa, ti porta dalla prima pagina all’ultima senza darti il tempo di respirare o di pensare. Clifford a me pare che faccia un’altra cosa. Ci presenta delle persone: le definisco così e non ‘personaggi’ perché da subito si ha l’impressione di entrare in contatto con loro, tanto è vivida e diretta la scrittura che ce le fa conoscere. Poi, mentre segui con curiosità lo sviluppo dei rapporti tra questi nuovi amici, come si fa quando si entra in una nuova comitiva, senza quasi rendertene conto vieni risucchiato dentro ad una storia fenomenale, e non ne vuoi uscire perché ormai quei ragazzi, quella gente, sono quasi la tua famiglia; ormai Joe Clifford ti ha acchiappato e non ti molla più, come il chiodo che si aggancia alla giacca da lavoro del protagonista Jay Porter, nella prima pagina, e la squarcia da sotto a sopra.

Attraverso quello squarcio già alla prima pagina entriamo nella vita di quest’uomo giovane ma già vissuto, autoironico, consapevole delle sue mille debolezze, ma anche deciso a non farsi piegare dalle difficoltà oggettive della vita, una vita che sembrerebbe proprio un disastro. Jay non è un superuomo, ci racconta subito quale infanzia tragica abbia avuto: “la tragedia mi era entrata dentro come fumo di sigaretta che si incolla alla lana del maglione dopo un’intera nottata al pub…”. Ci racconta che è stato lasciato dalla sua donna che si è messa con un altro e si è portata dietro loro figlio, ci racconta delle difficoltà a sbarcare il lunario, ma lo fa quasi scherzandoci su, con quel sorriso un po’ amaro dei sognatori fregati dalla vita ma ancora resistenti. Un suo vecchio conoscente, non molto simpatico, che lo rivede dopo molto tempo, lo saluta così: “E quindi, Porter, sei sempre il re di Merdolandia?”. Ma Jay non è per niente il re di Merdolandia e lo dimostra perché neanche risponde. Jay ha una sua irresistibile poesia interiore, la sua vita, il suo modo di essere sono tutti in un’autodefinizione che compare molto avanti nella storia: “Non sapevo cosa stessi cercando ma mi ero convinto che fosse come per l’arte e l’ironia: l’avrei capito non appena mi fosse capitata a tiro…”.

E come si fa a leggere di un ragazzo così, un po’ stordito, ma profondo e curioso, un po’ cinico ma coraggioso e generoso, bloccato nelle relazioni, quasi imbranato, ma capace di grandi sentimenti, un ragazzo che guarda passare davanti a sé il film sconcertante della sua America, senza pensare subito a Holden Caulfield? Ecco, quando ho conosciuto Jay Porter mi è venuto da pensare, con il cuore in gola: Holden è tornato, cresciuto e relegato nel gelido New England, a raccontarci la sua storia e il tragico precipitare degli eventi. E visto che ho disturbato Salinger, disturbo pure Don Winslow, perché questo Jay Porter di Joe Clifford ha la stessa naturale simpatia del dilettante trascinato in storie più grandi di lui che aveva il primo Neal Carey del grande maestro americano.

Winslow comunque qui non c’è, quindi possiamo dire, senza offendere nessuno, che Joe Clifford ci sbatte in faccia il lato oscuro dell’America profonda in modo più sonoro, più nitido, più cinematografico di Winslow. Ecco, un altro sapore speziato di questo libro è proprio quello della grande provincia americana. Un’interminabile autostrada che taglia da sud a nord il New England verso il Canada, da Concord fino a Montreal. Dimensioni paradossali, inconcepibili per un europeo. Un Travel Center, un’area di sosta per i grandi autoarticolati che attraversavano il paese “… a tutti gli effetti una cittadina sorta in mezzo al nulla; come Reno, solo nella tundra”, un posto “trafficato da camionisti che parcheggiavano ripartivano, guerrieri brizzolati e logorati dalla strada scendevano da giganteschi autocarri per fare il pieno di diesel o riempirsi di qualsiasi cosa friggessero dentro il ristorante”. Tutto è gigantesco, minaccioso, ostile, a partire dalla natura, dal clima, dalla forza degli elementi. Le nuvole di tempesta ruggiscono “come le marce di uno schiacciasassi” e “succhiano la luce al panorama”. Il Ragged Pass, unica via per muoversi da Ashton, la cittadina dove tutto si svolge, è “una trappola di ghiaccio mortale quasi tutto l’anno”, mentre “a est non c’erano strade per uscire dalla città”. La neve cade “in enormi fiocchi che si attaccano ovunque”. Ma il vero flagello, più devastante delle tormente e della miseria, è la piaga della droga, che ‘stava sfuggendo di mano’, dice Clifford, creando eserciti di fantasmi senza tetto, emarginati, disadattati. “Osservai la fauna di sbandati. Chiamarli barboni sarebbe stato ingiusto, ma di sicuro elevarli al rango di cittadini era difficile… Vagabondi che percepivano il sussidio e vivacchiavano in uno degli innumerevoli motel della zona in attesa del prossimo assegno statale con cui si sarebbero comprati abbastanza droga da mandare a fare in culo tutta quella disperazione, almeno per un altro po’”.

Il New England di Clifford non può non ricordare il Texas orientale di Lansdale o i sobborghi di Los Angeles in cui si aggira Harry Bosch di Connelly. Oppure la sordida Washington DC di Pelacanos. E’ un mondo oscuro, che sembra essere la sola faccia in ombra di una comunità di operosi imprenditori, credenti devoti, politici onesti e ricchi benefattori. Sembra, dico, perché uno dei pregi di questa storia è che nulla o quasi si rivela essere ciò che appare in un primo momento.

Il ponte levatoio che si abbassa e apre la via all’ingresso del mistero nella vita quasi tranquilla di Jay e della cittadina di Ashton, è il formidabile personaggio di Chris, suo fratello maggiore. Lo conosciamo come un uomo perduto, sbandato, abbrutito, totalmente preda delle sue dipendenze. “Metà della testa ossigenata era rasata a casaccio e piena di croste attorno all’orecchio, come se avesse utilizzato due pezzi di vetro al posto delle forbici e un tostapane per specchio”… “Ogni volta che faceva un tiro di sigaretta, aspirava così forte che ci si sarebbe aspettato di vedere i suoi occhi scomparire in fondo al cranio mentre l’intero corpo diventava cenere”. Ma l’ho detto prima, i personaggi di Joe non sono di passaggio, non sono figuranti. La personalità di Chris Porter è complessa, articolata, si scopre poco a poco, pagina dopo pagina. E’ proprio Chris che trascina Jay nel vortice del noir.

A un certo punto, naturalmente, c’è un omicidio. L’indiziato numero uno, il facile capro espiatorio è proprio Chris. Sparisce un hard disk che contiene segreti compromettenti, tutti lo cercano, saltano gli schemi, il ritmo accelera, entrano in scena altri personaggi.

Alcuni sono vere incursioni di luce, come Jenny, la ex compagna di Jay, il piccolo Aiden, loro figlio, o alcuni personaggi minori ma fino a un certo punto, come la deliziosa Katherine detta Kitty, che a metà della storia e solo per telefono ci offrirà un punto di vista molto diverso sulla vera personalità di Chris.

Altri invece sono pura tenebra. I veri cattivi. Che thriller sarebbe senza cattivi? E pure i cattivi cambiano forma nel corso della storia, cambiano le loro motivazioni, nuovi segreti si svelano.

Al centro di questa tormenta di neve in cui tutto sembra diverso momento dopo momento, c’è un blocco di marmo su cui poggia il senso di Lamentation: è il rapporto tra i due fratelli. Esiste, resiste, a dispetto di ogni pressione, ma cambia, si modula, cresce. Questa metamorfosi prodigiosa, la sua forza e la sua delicatezza, è il vero nucleo di poesia del romanzo. Il rapporto oscilla, spinto in su e in giù da pregiudizi, incomprensioni, ricordi sbiaditi, sfiducia e amore incondizionato. Più volte rischia di sgretolarsi definitivamente in mille pezzi ma non lo fa mai. Anzi. Qua e là per tutto il libro si infiamma e si arricchisce di nuovi sorprendenti dettagli, fino al gran finale che dà il senso a tutta la storia.

Quando l’avrete letto sono sicuro che proverete come ho provato io quell’emozione indescrivibile che ogni lettore conosce ogni volta che chiude l’ultima pagina di un libro che ha amato: la certezza di non essere più lo stesso grazie a quella lettura e la voglia matta di ricominciare appena un secondo dopo.

Lamentation, Joe Clifford, CasaSirio