Tiziano Vecellio 1485-1576
Assunzione della Vergine, Basilica di Santa Maria de’ Frari, Venezia
In pittura, la rapida transizione che caratterizza le crisi filosofiche, culturali, politiche a cavallo tra un’epoca e l’altra è prettamente materica: si concentra cioè in oggetti materiali, i dipinti, che vivono nel mondo fisico, occupano lo spazio, sono percepiti nella sfera sensibile.
L’incontro con questi oggetti straordinari, formidabili testimoni del cambiamento del pensiero umano, della sua natura e della sua direzione, agisce come un colpo di diapason sulle anime, che vengono accordate alla loro innovativa vibrazione, e incoraggiate a guardare verso il futuro senza paura. Si tratta di poche, eccezionali opere che hanno la forza di condurci oltre, perché in uno spazio ‘oltre’ della storia sono state concepite, un luogo in cui il loro geniale artefice è giunto prima di ogni altro umano.
Una di queste è l’Assunta di Tiziano Vecellio, custodita presso la Basilica di Santa Maria Gloriosa de’ Frari, a Venezia.
È una pala d’altare, una tavola delle dimensioni ragguardevoli di circa 7 metri per 3 e mezzo, dipinta a olio da Tiziano tra il 1516 e il 1518, anno della presentazione nel clamore generale presso quella basilica francescana, la più grande di Venezia, il cui rettore l’aveva commissionata per esporla dietro all’altare maggiore. Era un momento particolare delle vicende politiche e artistiche della Serenissima, la cui supremazia militare ed economica nell’est del Mediterraneo e nei territori italiani sotto il suo dominio cominciava ad essere non più incontrastata.
Il decano Bellini, maestro indiscusso di tutti i pittori veneti, vero fagocitatore di commissioni sacre e profane, aveva pensato bene di passare a miglior vita proprio in quel 1516, dopo che pure il genio innovatore di Giorgione aveva lasciato prematuramente la scena sei anni prima, portato via dalla maledetta peste nera. Zorzi da Castelfranco, nel breve periodo della sua attività, aveva comunque fatto in tempo a lasciare un’impronta profondamente innovativa nel gusto e nel modo di concepire la pittura, che rappresentava una eredità ideologica e figurativa pesantissima, a Venezia.
Chi avrebbe saputo raccoglierla? Non esisteva ancora una risposta.
Per farlo, non bastava saper dipingere da dio, naturalmente. In tema di pittura i veneziani avevano palato fine. I Dogi, il Consiglio dei Dieci e tutti i patrizi della città lagunare, costituivano un pubblico estremamente esigente, sofisticato, selettivo, nel quale da sempre trovavano una sintesi il gusto estremo del bello, la concretezza mercantile, l’aspirazione di supremazia, l’attenzione alla tradizione, la familiarità con l’esotismo. Un interprete capace di soddisfare le aspettative di una committenza del genere doveva necessariamente possedere qualità non ordinarie.
Per usare una metafora adatta a questi nostri tempi in cui la più popolare Chanson de geste è quella pedatoria, si potrebbe fare l’esempio del Barcelona Futbol Club, in cui non puoi giocare solo se sei bravo: devi essere il più bravo e devi avere quel pizzico di magica follia che ti renda diverso, per cui tutti gli altri strabuzzino gli occhi al solo a vederti toccare il pallone. Ecco, ‘gli altri’ per i veneziani erano soprattutto quei boriosi snob dei fiorentini, che si credevano unici depositari della civiltà artistica italiana: potevano mettere in campo una tradizione da far spavento e schierare nella loro squadra campioni della classe di Masaccio, Paolo Uccello, Piero, Leonardo, Beato Angelico, Filippo Lippi, Michelangelo, Botticelli, Ghirlandaio eccetera eccetera. Praticamente un Dream Team ante litteram, rinforzato da fuoriclasse stranieri (ma di cultura pittorica centro italica) del calibro di Raffaello (marchigiano), Perugino e Pinturicchio (umbri).
Per competere e a quei livelli e non sentirsi dei dilettanti di fronte ai giganti, il capitano della squadra veneziana non poteva essere solo un bravo pittore: doveva essere un genio.
Alla morte dell’anziano Bellini, il cui naturale successore, per estro, intuizione, e assoluta presenza scenica, sembrava in quei primi anni del secolo dover essere proprio il geniale Giorgione, finché il crudele morbo non se lo portò via, la lotta per l’investitura deflagrò spettacolarmente, a colpi di committenze strappate per affreschi, teleri e pale d’altare, in competizione virtuosa tra loro per splendore e originalità.
I principali contendenti erano il nostro Tiziano Vecellio, da Pieve di Cadore, veneto di montagna dal fiuto eccezionale per gli affari, solido, concreto, carismatico e sicuro di sé; il non meno talentuoso Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone, forse un po’ più retorico e un po’meno geniale del cadorino; Sebastiano Luciani, detto successivamente Del Piombo, bravo pittore ma senza la personalità dei primi due e comunque già emigrato a Roma per tentare la carriera che solo in parte gli riuscirà, all’ombra dei due giganti Michelangelo e Raffaello.
Tiziano era sulla trentina (non conosciamo con precisione la sua data di nascita, che collochiamo approssimativamente al 1485). Aveva grandissima ambizione, solido carattere, fame di gloria e ricchezze e soprattutto era dotato di una fantasia prodigiosa e del carisma necessario per esprimerla senza timore reverenziale.
Si lanciò a corpo morto nell’impresa, mettendosi al lavoro, in quel fatidico 1516, forte delle cospicue risorse francescane che finanziavano l’opera. Voleva sbalordire Venezia, affermare definitivamente il suo astro nascente, sbaragliare la concorrenza.
Ci riuscì perfettamente, se è vero quello che ci raccontano tutte le fonti: difficile rintracciare nell’intera storia dell’arte un simile successo di una singola pala d’altare (Fig. 1). Sembra che i francescani, inizialmente perplessi (probabilmente erano frati dai gusti semplici che non si attendevano quel fuoco d’artificio pittorico), cambiarono immediatamente idea e trattennero l’opera quando un emissario dell’Imperatore Carlo V, appena l’Assunta fu disvelata, si fece avanti per acquistarla a peso d’oro.
Il tema è convenzionale: l’assunzione di Maria al cielo, direttamente dalla tomba, nello stupore dei discepoli invocanti. La sua narrazione, al contrario, stravolge ogni canone fin lì utilizzato dalla tradizione. L’equilibrio di secoli di pittura è infranto dai colpi furiosi del pennello di Tiziano, che intraprese una lotta titanica per contenere in un linguaggio entro i confini dell’umano l’esuberanza irrefrenabile della sua giovanile ispirazione.
Il risultato fu eccezionale, quasi impossibile da descrivere a parole.
Per capire l’Assunta bisogna andare a vederla dal vivo, perché naturalmente non è un semplice quadro: è la materiale rappresentazione del funzionamento profondo della vita. Dirò soltanto che la prima impressione, la migliore, è una suggestione interamente cromatica, che aderirà a qualsiasi vostro futuro ricordo, per sempre. È un impossibile tripudio di rosso, un rosso che è il vero grande protagonista dell’opera: si allarga nel campo visivo come una macchia di porpora su una tela candida di lino, riempie i polmoni di un pulviscolo caldo e gli occhi di lacrime senza che vi possiate dare una spiegazione.
Rossa -come il sangue, come l’amore, come un lapillo che la terra erutta e schizza verso il cielo- è la vibrazione che lo percorre interamente, dal basso fino agli infiniti spazi oltre le nubi, oltre il pensiero. Rossa è la veste della Vergine, rossa la tunica del discepolo in primo piano e dell’altro alla sua sinistra. La luce si riflette sulle grandi macchie di colore pulsante e rimbalza verso la retina, marchiandola come per un incauto sguardo verso il sole di luglio. Non c’è tempo per pensare, non c’è tempo per cercare di capire. Nessuno spazio, nella narrazione, è concesso al dramma, al pianto, al lamento.
Tiziano sperimenta la sinestesia teologica: sta parlando della Vergine e del mistero della sua assunzione al cielo, attraverso la stimolazione sensoriale dell’osservatore. È la nascita di un linguaggio moderno, che parla all’inconscio prima di Freud, che intreccia impressioni prima di Monet.
Maria si è spenta ma non c’è traccia di morte nel quadro, solo una sfavillante fiammata di vita, poiché l’anima della Vergine, unico essere mortale esente dal peccato originale perché concepita immacolata, ascende al cielo senza macchia, così com’è nata. La direzione verticale dell’idea stessa di Assunzione, che Tiziano doveva tradurre in immagini, è resa dalla mirabolante metafora pirotecnica, che percorre l’intera tavola. La disposizione triangolare dei rossi (le due vesti dei discepoli, in basso, quella di Maria al vertice), la freddezza delle tinte terrigne nella parte inferiore, la vaporizzazione sulfurea della parte superiore, tutt’intorno alla figura della vergine e tra essa e il Padreterno… tutto rimanda a una lingua di fuoco che arde e innalza al cielo le sue faville.
Brucia di passione innovatrice, Tiziano, e Maria brucia con lui.
La fiamma è un passaggio di stato della materia, con liberazione di energia tra corpi del mondo fisico che cambiano la loro forma. Ed ecco che il giovane maestro la usa come simbolo di un passaggio fulmineo da una condizione di umanità mortale a quella di energia universale ed eterna.
Un colpo di genio assoluto.
Oltre ogni sua più consapevole intenzione, quella fiammata su tavola di legno diventa l’icona potentissima del passaggio da una civiltà pittorica a un’altra: dal ‘400 delle armoniche stabilità al ‘500 delle folgoranti energie.
Nel turbine di fuoco, lo spettatore estatico si aggancia per sempre ad alcuni sconcertanti dettagli.
Il parapiglia scomposto dei discepoli è una novità inaudita: solo pochi anni prima sarebbe stato inconcepibile per la placida staticità delle ortodosse composizioni belliniane. È una reazione al prodigio, tumultuosa e confusa, certamente, ma non disperata, non dolorosa. Lo stesso sarcofago, simbolo della morte corporale e del pianto degli uomini, appare appena visibile in un minuscolo angolo, al centro del lato inferiore della tavola.
Domina la scena un senso di folgorante rapidità, di calore, di forza inarrestabile in quell’ascesa di una grande anima, volatile e leggera come l’aria riscaldata dalla fiamma. Sembra sfuggire alle mani stesse degli uomini esterrefatti e dirigersi senza indugio e timore direttamente tra le braccia di Dio Padre, un creatore dal volto quasi in ombra.
In ombra perché la scena è tutta di Maria, l’unica che può guardarlo e forse l’unica che può comprenderlo davvero.
Un particolare di squisita delicatezza commuove e incanta: i mondi sovrapposti, la terra popolata da uomini illusi e agitati, e il cielo delle anime leggiadre, non sono del tutto distinti. Una striscia di cielo tra il grigio e l’azzurro li separa, ma attraverso di essa due ponti sono gettati.
Quei mondi si toccano, anzi si sfiorano appena, come innamorati timidi la prima volta da soli: le dita della mano protesa verso l’alto del discepolo di spalle, al centro, attingono appena la nube che sorregge Maria; il piedino dell’angioletto in basso a destra quasi tocca il capo di un uomo del gruppo.
Vita, morte; terra, cielo; anima, sangue; umano, divino… rette parallele che non s’incontrano solo all’infinito, ma anche nella stupefacente intuizione, attuale e moderna, di un visionario manovratore di pennelli. C’è Raffaello, qui, c’è Michelangelo, in una misteriosa contaminazione di ispirazioni tra titani del Genio.
Tiziano Vecellio non era né l’uno né l’altro e il suo percorso fu molto diverso dal loro, ma vinse quella sua prima cruciale sfida per la gloria e un sovrumano miracolo di bellezza esplose agli occhi dei veneziani attoniti, quel giorno di agosto del 1518, quando l’Assunta fu presentata ai comuni mortali.
