L’indeterminatezza di De Nittis

Giuseppe De Nittis 1846-1884

Giornata d’Inverno, Pinacoteca De Nittis, Barletta

La luce, che cos’è?

Se ne dibatte da secoli, i fisici si accapigliano dai tempi di Newton. Quando viene emessa o assorbita, si comporta come una particella, quando si propaga si comporta come un’onda. E allora? Come definirla?

Per ora ci si accontenta di indicarne la natura duale, indeterminata, come per gran parte della realtà fenomenica. Probabilmente è un problema nostro, di Homo sapiens, intendo, e della sua necessità di definire, perché la luce è come è, e non deve renderne conto a nessuno. L’essere umano, però, si direbbe in qualche modo condizionato da una delle sue doti più peculiari, ciò che lo rende una realtà biologica unica, su questo pianeta: la capacità di osservazione critica dell’universo fisico in cui vive. Anche questa capacità, infatti, ha natura duale: per un verso è straordinariamente acuta, libera, autonoma. È animata dalla consapevolezza del sé, che è il punto di partenza, e arricchita dalla conoscenza e dalla intelligenza, che forniscono gli strumenti culturali e tecnologici per spingersi molto avanti: nello spazio, nelle profondità degli oceani, all’interno delle cellule viventi, o addirittura dei legami tra atomi e molecole… sembra non esistere un luogo fisico in cui il nostro occhio non sappia spingersi. Dall’altro, però, evidenzia limiti continui, di cui non sempre si è consapevoli. Non vede tutto, non comprende tutto, non ha i mezzi per definire tutto. E non è che ciò che non vede o non comprende non esista… anzi: la sua esistenza può complicare il percorso della conoscenza, perché funge da incognita imprevedibile, pronta a infrangere ogni regola, a smentire ogni legge faticosamente spremuta dallo studio della realtà con metodo razionale. Quest’area di tenebra che, per quanto si spinga avanti la luce, sempre avrà la sua consistenza, perché l’universo da conoscere è infinito, è lì a ricordarci che ciò che siamo non è stabilito per sempre, una volta per tutte. La nostra complessità, che tutto abbraccia al suo interno, tra opposti e paradossi, segna una necessità inderogabile: ciò che siamo dobbiamo deciderlo noi, ogni giorno daccapo. È una scelta che oscilla, ora qui, ora lì, come la particella di materia di cui non si riesce a misurare simultaneamente la posizione e la velocità.

Giuseppe de Nittis è nato a Brindisi nel 1846 e in tutta la sua brillante ma purtroppo breve parabola esistenziale e artistica, è stato un pittore refrattario alle definizioni, difficile da costringere in una semplice e rigida categoria. Talento precoce ed esuberante, insofferente alle briglie delle accademie, ha cominciato a dipingere molto giovane, avversato dai fratelli maggiori cui era affidato dopo la morte dei genitori e del nonno. Si è formato alla Scuola di Belle Arti di Napoli, da cui però si fece espellere quasi subito, per incompatibilità caratteriale. Frequentando la metropoli partenopea ebbe comunque modo di assorbire ampie influenze da quel gruppo molto attivo di pittori napoletani, eredi ideali dei grandi paesaggisti della scuola di Posillipo, che proprio in quegli anni sperimentavano la novità del lavoro en plein air e che spesso si ritrovavano a Resina o a Portici per dipingere insieme.

De Nittis sorprese tutti, partendo a razzo: dai suoi esordi pubblici, nella metà degli anni ’60, la sua carriera non conobbe inciampi, toccando i vertici della consacrazione europea nei primi anni ’80 del secolo, prima che una morte improvvisa, nel 1884, a soli 38 anni, ne interrompesse ogni possibile ulteriore sviluppo.

Fu a Parigi fin dal 1868, fortemente voluto da uno dei più potenti mercanti d’arte di allora, Goupil, che aveva visto e apprezzato, da fine intenditore, alcuni suoi studi di paesaggi campani e pugliesi.

L’ispirazione di quei primi anni è illuminata da una chiara vocazione realista. Le vedute del fiume Ofanto e della grande pianura pugliese, le strade polverose e assolate, gli scorci del Vesuvio, sembrano uscire dal pennello di Corot, per la tavolozza chiara, con prevalenza di colori caldi, gli ocra, i gialli, gli arancioni, e da quello di Millet, per la scelta dei soggetti della vita rurale, per la forza della rappresentazione, senza sconti o concessioni alla civetteria.

Appena si cerca di fissare De Nittis in una misura, però, ci sfugge e si colloca altrove. Già nei cieli di quei primi quadri, nella selezione delle inquadrature, nella resa di certi dettagli, emerge un’anima protesa alla modernità, che tende a non guardarsi indietro. Questa propensione era come un destino già scritto, che non poteva non compiersi a pieno nella capitale francese.

A Parigi, in quegli anni stava accadendo qualcosa, il processo che si avvertiva in potenziale nel nostro De Nittis si stava esprimendo in tutta la sua trasgressiva concretezza nella produzione di una nuova formidabile generazione di pittori, in forte contrapposizione con l’accademia e i maestri venerati del passato.

Già nei primi anni ’60 i più anziani di quella nouvelle vague di guastafeste, Camille Pissarro, Edouard Manet, Edgar Degas, avevano vibrato colpi fatali alla maniera convenzionale. Il battitore libero Manet, anarchico e geniale innovatore, tra il 1863 e il 1865 aveva lanciato la sua sfida, presentando due capolavori destinati a provocare scandalo e ad aprire definitivamente una nuova epoca: Le Déjeuner sur l’Herbe, esposto al Salon des refusées, voluto da Napoleone III nel 1863 e l’Olympia, esposto al Salon ufficiale del 1865.

Due colpi di cannone sparati sulla traballante muraglia degli accademisti, i Bouguereau, i Meissonnier, che ancora dominavano i gusti borghesi e il mercato.

E poi ancora i primi capolavori di Pissarro e Degas, i primissimi cimenti di un Claude Monet imberbe (nato nel 1840) e dei coetanei Renoir, Sisley, Guillaumin, Berthe Morisot (tutti del 1841), stavano contribuendo sostanziosamente alla rivoluzione figurativa, che per essere accolta definitivamente avrebbe dovuto attendere ancora un paio di decenni.

Il giovane Giuseppe mostrò una duttilità stupefacente, assimilando rapidamente la lezione della modernità imposta da questo formidabile gruppo di avanguardisti. In particolare, strinse legami con Degas e Pissarro e fu da questi invitato ad esporre, unico italiano, nella prima, storica mostra degli ‘Impressionisti’, nel 1874, presso lo studio del fotografo Nadar, in Boulevard des Capucines.

Opere come Tra le spighe del grano (1873), La Grenouillère (1873) o Accanto alla pista (1874), per la luminosità della tavolozza, l’eleganza degli accostamenti cromatici, la brillantezza nella scelta delle inquadrature, la profondità dell’intuizione sul gesto da fissare, gli garantivano legittimamente una collocazione alla pari con quegli straordinari giovani talenti.

Dunque, De Nittis impressionista? No, nemmeno. Certo, i soggetti trattati, la ricerca continua di innovazione, il respiro di modernità lo avvicinavano all’ispirazione del gruppo, ma da questo momento in poi e per tutto il resto della sua breve vita la pittura di De Nittis assunse sempre di più quel connotato di ‘indeterminatezza’ che, come nel principio di Heisenberg, impedisce la certezza della misura.

Lo dimostra la sua produzione successiva, dalla metà dei ’70 in poi, fino alla piena maturità: pittore dell’anima alla moda di Parigi, della più concreta e fumosa quotidianità di Londra, interprete fiabesco della nuova sensibilità ‘giapponista’, che esplose in Europa all’arrivo delle stampe artistiche dal paese del sol levante, fine introspettore e delicato ritrattista di dame, apologeta del mondo ridente e leggero delle corse al Bois… De Nittis lasciò correre libera la sua ispirazione su quello che il bel mondo desiderava dalla pittura, con un linguaggio che, intelligentemente, innovava senza disturbare, rinfrescava il gusto con delicatezza e senza chiasso eccessivo, sottolineava la modernità rassicurando: la conseguenza naturale fu uno straordinario successo di vendite e di critica, in Francia come in Inghilterra, che lo proiettò nel novero dei più ricercati artisti dell’epoca.

Forse si può comprendere meglio l’impatto che l’opera di De Nittis ebbe sui contemporanei da un commento che di uno dei suoi quadri più belli realizzati a Londra fece il giovane Vincent Van Gogh, commesso da Goupil in quegli anni, in una lettera al fratello Théo del luglio 1875: “Abbiamo ricevuto qualche giorno fa un quadro di De Nittis, una veduta di Londra, in un giorno di pioggia. Il ponte di Westminster. Io ne conoscevo l’aspetto quando il sole tramonta dietro l’abbazia e il Parlamento, e anche la mattina di buon’ora, e con la neve e con la nebbia, in inverno. Quando ho visto questo quadro, ho sentito quanto amassi Londra”.

Il quadro cui si riferisce Van Gogh è uno della serie dedicata al ponte di Westminster (Fig. 1). Il palazzo del parlamento, al tramonto, sfuma nelle brume rosso-viola. L’umida atmosfera londinese filtra la luce e attutisce i rumori. Tutto sembra immerso in un silenzio premonitore della notte incombente. Figure umane appoggiate al parapetto richiamano pagine di Dickens: realismo e poesia, naturalismo impressionista ed emotività espressionista… un ponte, non tra due rive del Tamigi, ma tra Pissarro e Monet, di cui sembrano sbucare nelle nebbie le vedute di Rouen, da una parte, e, dall’altra, un certo cromatismo a blocchi di colore che precede l’evoluzione di Cézanne e l’interesse per la cristallizzazione del fugace, l’attimo disorganizzato che l’obiettivo del fotografo ferma, così com’è, sulla superficie della lastra. De Nittis fa qui un capolavoro che giustamente ne sancisce la definitiva consacrazione tra i mecenati anglosassoni.

Se devo scegliere un’opera che mi trattenga De Nittis nel cuore, tuttavia, esco dal periodo londinese e torno a Parigi. Non la Parigi delle scene mondane e civettuole, però: quella degli accenti intimi, quasi sussurrati, dei ritratti familiari. Tra questi, prediligo il ritratto della moglie Léontine del 1882, denominato Giornata d’Inverno, oggi conservato presso la Pinacoteca De Nittis di Barletta (Fig. 2).

È un pastello.

Sì, non avete capito male, un pastello su tela di un metro e mezzo per un metro, circa. Un miracolo di raffinatezza e di sensibilità, realizzato con una tecnica che quasi nessuno utilizzava più, allora e che De Nittis riportò in auge con risultati formidabili, uno dei quali è oggi ammirabile alla Galleria d’Arte Moderna di Roma (Le corse al Bois de Boulogne, 1881).

Léontine è languidamente adagiata su un sofà di seta a preziosi motivi floreali, leggermente sulla destra, per aprire la visuale attraverso lo stupefacente giardino d’inverno, dietro l’ampia vetrata. Tutto è coperto di neve, silenzio e profondissima malinconia. È un trionfo delle infinite potenzialità espressive del bianco: colore non colore per i più, materia plastica della vita, per De Nittis, che ne sa rendere ogni delicata sfumatura. Quello candido della neve, in contrasto con quello più sporco degli edifici in pietra, sullo sfondo. L’avorio della veste di Léontine, sensuale, effimera come un sussurro, profumata e pensosa, che forse già presagisce l’imminente tragedia che li attende. Il bianco-grigio dei fiori della tappezzeria, il bianco- giallastro della tovaglia damascata, quello luminoso del foulard di seta abbandonato sulla destra: non sembra esistere limite alle possibilità espressive che la mano di De Nittis sa far emergere da questa tinta, solo apparentemente neutra.

Per De Nittis bianco è il delicato colore di fondo dell’esistenza, su cui tracciare le tinte della propria personale vicenda. Bianca è l’essenza più intima degli affetti, fragile e delicata come i bastoncini che si sbriciolavano alla pressione delle sue dita, mentre operava alla tela.

Bianca è la luce di una fredda mattina, i riflessi lattescenti delle coltri di nubi e quelli più tenui dei pensieri più tristi.

Bianca è la pagina rimasta ad attenderlo invano, quel giorno d’estate, quando la vita lo ha d’improvviso lasciato.

Figura 1. Giuseppe De Nittis, Westminster Bridge. Collezione Privata.
Figura 2. Giuseppe De Nittis, Giornata d’Inverno. Pinacoteca De Nittis, Barletta.