Il Presepe di Tintoretto

Jacomo Robusti detto Tintoretto, 1518-1594

Natività, Scuola Grande di San Rocco, Venezia

Io non ricordo una Natività più bella di quella che Jacomo Robusti, detto il Tintoretto, ha dipinto per la Scuola Grande di San Rocco, a Venezia, tra il 1576 e il 1581 (Fig. 1). È un quadro impossibile: dal vivo fa ancora più sensazione, confinato com’è nel registro superiore della parete di fronte all’entrata, nella Sala Consiliare al primo piano della Scuola, una specie di risposta veneziana alla Cappella Sistina. I critici non credono che sia tra i capolavori di Tintoretto, io sì.

Mi rendo conto che scegliere questo quadro, per parlare di Tintoretto, è come scegliere una bellissima foto di Fellini per descriverne il talento.

Nel Miracolo dello Schiavo o nel Trafugamento del corpo di San Marco, che stanno a Brera, nelle Nozze di Cana di Santa Maria della Salute o nei capolavori di Santa Maria dell’Orto, come la Presentazione di Maria al tempio, c’è tutto il genio esuberante del pittore veneziano: l’energia furiosa, la coreografia ritmica dei corpi umani, la maestosa e ridondante visione narrativa della storia sacra, la lussuria vorticosa delle tinte rare e innaturali, il genio registico, le invenzioni sbalorditive da illusionista. Sono quadri di una bellezza orgiastica, indicibile, di una modernità quasi ridicola, antistorica, che fanno esplodere di passione i fortunati osservatori. Sono opere che danno dipendenza da Tintoretto, stabiliscono un legame che non può più sciogliersi, avvincono come una serie televisiva, impigliano lo sguardo e trafugano i pensieri, occupano il tempo e stimolano fantasmagoriche suggestioni. Invitano al sogno.

Ma questa Adorazione dei pastori di San Rocco, per me è qualcosa di ancora più grande.

Non c’è fretta ma contemplazione, non c’è frenesia nel movimento ma grazia. Il ritmo è dolcissimo, soave, come in un canto di gloria, perché davanti abbiamo un bambino neonato, non un santo adulto o un eroe già fatto. La luce diabolica del mondo, innaturalmente terrea, sanguigna, incombe ma non entra nella capanna dal tetto diroccato. Le assi di legno del tetto, in fuga prospettica, la tengono distante, al di sopra del miracolo di tenerezza che sta avvenendo in quel misero luogo. Una vita è appena sbocciata sul soppalco di un granaio, in mezzo alla paglia: basta questo, un grumo di umanità innocente ed esposta a pietrificare gesti e intenzioni degli uomini, intorno. C’è silenzio, attenzione. È chiaro che l’universo intero orbita intorno a questo istante, che pare infinito. La speranza è viva, tutti comprendono e si fermano commossi, stupefatti. Giuseppe poggia sul bastone il peso dei suoi anni, incredulo: sente sciogliersi dentro un sentimento nuovo, tra sollievo per il compito assolto, amore per quella fragile creatura che appena vagisce e pena infinita per il futuro che la attende.

Dov’è la tensione, dov’è il ritmo, dov’è la macchina da presa che scarrella, la frenesia degli attori, gli effetti speciali, le luci, i costumi e le sonorità acide della chitarra elettrica?

Non ci sono. È Natale e Jacomo, come tutti, ha semplicemente preferito il suo Presepe al solito, geniale, episodio di Star Wars. Per questo io lo amo ancora di più.

Figura 1. Jacomo Tintoretto, Natività. Scuola Grande di San Rocco, Venezia.