Il dono

Il dono

Tommaso di Giovanni de’ Cassai detto Masaccio, 1401-1428

Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine, Firenze

Chi era Tommaso di ser Giovanni di Mone dei Cassai? Non lo sapremo mai con certezza. Vasari così scrive di lui:

Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose della arte sola, si curava poco di sé e manco di altrui. E perché e’ non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro, al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da’ suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso, che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché e’ fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine con la quale nientedimanco era egli tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più oltre non può bramarsi”. 

Masaccio, dunque: oggi lo conosciamo così; e il nomignolo a quanto pare non era dovuto al malanimo del personaggio, ma piuttosto a quella trascuratezza della figura e a quella stravaganza delle abitudini, che una certa letteratura romantica ama attribuire ai geni assoluti.

Sappiamo anche che nacque a Castel San Giovanni, l’attuale San Giovanni Valdarno, alla fine del 1401, e che morì assai misteriosamente a Roma, forse avvelenato, nel 1428, senza ver compiuto i 27 anni. Non molto altro. Tranne, naturalmente, ed è questa la sola cosa davvero assodata della sua fugace parabola esistenziale, che con matite e pennelli ha stravolto per sempre il modo di rappresentare lo spazio, il tempo, le persone.

Un Genio lo fu davvero, una di quelle comete che passano per pochi istanti nel cielo stellato delle vicende umane e lasciano una traccia per gli altri, per chi da dietro arranca e cerca risposte. Masaccio ha cambiato la storia dell’Arte e la pittura. In pochissimi anni, senza girare il mondo, solo con la forza travolgente della sua intelligenza e del suo immenso talento.

Figlio di Ser Giovanni, giovane notaio scomparso prematuramente quando Masaccio aveva appena 5 anni, Tommaso probabilmente manifestò un talento artistico precoce nella bottega di cassai della famiglia paterna, tanto che già nel 1417-18 lo troviamo in una Firenze sconvolta dalla peste e dalla lunga e dispendiosa guerra con il Duca di Milano. C’era fermento, in città, in quell’epoca: uno di quei momenti della storia in cui la produzione di ingegni sembra miracolosamente e misteriosamente concentrarsi in un luogo e in un tempo. Il denaro non mancava, nonostante guerre ed epidemie, concentrandosi nelle mani di poche famiglie che controllavano il tradizionale commercio dei tessuti e l’attività bancaria, in grande espansione. Le più ricche corporazioni, le Arti, come si chiamavano, rappresentavano, insieme a queste famiglie, la principale fonte di committenza per una quantità di botteghe artigianali, i cui artefici erano chiamati ad abbellire gli edifici pubblici e privati della città: scultori, pittori, ebanisti, orafi, in febbrile attività, producevano bellezza in gara tra loro.

Era la Firenze di Lorenzo Ghiberti, Pippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Paolo Uccello, Donatello. Soprattutto, la Firenze del cantiere della Cattedrale Santa Reparata, lasciata senza cupola dal grande Arnolfo di Cambio un secolo prima e ridedicata alla Vergine nel 1412, con il nome di Santa Maria del Fiore e che, proprio in quegli anni, si andava popolando di formidabili statue antropomorfe nei tabernacoli del suo perimetro: una vera rassegna delle maggiori personalità della scultura del tempo, campioni della tradizione e giovani innovatori, tra i quali gli stessi Ghiberti, Donatello e Brunelleschi. Il giovanissimo Masaccio, catapultato da un piccolo borgo del contado in questo contesto ricchissimo e stimolante, possiamo immaginare che non sapesse dove guardare. In realtà, sappiamo benissimo dove guardò. Fu irresistibilmente attratto dalla personalità e dal carisma di Filippo Brunelleschi, reduce, proprio nel 1418, dalla vittoria nel concorso per la realizzazione della cupola della cattedrale, un progetto stupefacente, superiore, per la qualità innovativa delle soluzioni proposte, a quello di chiunque avesse tentato prima. Ser Brunelleschi era un genio matematico, ingegneristico, tecnico come forse mai era visto fino ad allora e non facciamo fatica a credere che avesse profondamente affascinato il giovane promettente pittore, dotato di un talento fuori dal comune ma sicuramente bisognoso di una guida all’altezza che lo avviasse al pieno compimento.

Non sappiamo quasi nulla di ciò che avvenne tra loro, in quegli anni, ma sappiamo che Masaccio diede fin da subito prova di formidabile padronanza della tecnica prospettica, appena codificata dal Maestro Brunelleschi. Nel 1927, sulla controfacciata della basilica di Santa Maria Novella il giovane pittore realizza un affresco (Fig. 1) che lasciò i fiorentini senza parole: in una nicchia del muro dipinta in prospettiva perfetta, con un soffitto a cassettoni che in fuga geometrica penetra la superficie piana in un effetto ottico di profondità che in pittura nessuno prima aveva realizzato, si erge un crocifisso bellissimo, copia perfetta di quello ligneo scolpito poco prima dallo stesso Brunelleschi per la basilica domenicana. Alle sue spalle, Dio Padre e ai lati la Vergine e San Giovanni. All’esterno, inginocchiati, i committenti: Berto di Bartolomeo del Bandieraio e sua moglie Sandra. Un geometra, ‘maestro di murare’, e sua moglie, rappresentati nei loro panni della festa, con tratti somatici realistici, riconoscibili.

Quel varco illusionistico nel muro, certo, è un prodigio che basterebbe da solo a decidere la grandezza del suo autore. È una primizia mondiale, l’esordio di una nuova era della rappresentazione. Ma Masaccio non è stato solo questo: la sua forza inconcepibile esplode nella scelta di quei due, messi in primo piano, Berto e Sandra. Lui ha lineamenti forti, un naso lungo, il doppio mento, un orecchio piegato dalla berretta, il corpo pesante, impacciato dalla veste cui evidentemente non è avvezzo. Lei ha un volto paffuto, un profilo affilato, grandi narici, un lieve gonfiore della palpebra: due figure vivide di esseri umani, disegnati alla pari con i personaggi sacri.

Una rivoluzione. La cornice geometrica perfetta, la quinta architettonica che sfonda il piano e risucchia l’occhio verso il punto di fuga, è un programma dichiarato: la mente misura e sa rappresentare, indaga l’universo e ne rivela le leggi regolari. È una dichiarazione di altissima libertà, la rivendicazione di una indipendenza cognitiva e di una perizia tecnica gigantesche. Le stesse che Pippo Brunelleschi avrebbe mostrato al mondo nell’erigere il suo cupolone.

Ma in Masaccio l’oggetto della rappresentazione non è il numero o la linea, non è il rapporto matematico freddo. Nel cosmo tirato a lucido dalle fughe prospettiche, irrompe una figura picaresca, scarmigliata, turbolenta, gonfia di paradossi eppure splendida, nella sua poesia dell’improbabile: l’uomo moderno. Oltre ogni simbolo, oltre ogni gerarchia, la sua faccia ribelle richiede il chiaroscuro, le sue membra muscolose richiedono volumi, la sua vicenda materiale richiede colori e sapori di realtà.

E Masaccio è venuto al mondo per questo, tutto questo lo inventa lui.

Verso la fine del 1424, la famiglia Brancacci chiede a un bravo pittore dell’epoca, Masolino da Panicale, di affrescare una cappella nella chiesa del Carmine con un ciclo di storie dell’apostolo Pietro, per celebrare la figura di Pietro di Piuvichese, capostipite della famiglia, morto nel 1367. Fu il nipote Felice, commerciante in sete, a dare il via ai lavori, ingaggiando Masolino.

È Masolino a chiamare accanto a sé Masaccio, per eseguire il lavoro. Con lui, di cui è più anziano e affermato, aveva già lavorato abbastanza per capire che età e fama non contano, davanti a quel prodigio di ragazzo. La sua mano corre veloce, la sua creatività corre ancora di più, rispondendo a una voce misteriosa, dentro, che nessuno fuorché lui, ha mai sentito.

Lavoreranno insieme, gomito a gomito sugli stessi ponteggi, per qualche mese, fino alla partenza di Masolino per l’Ungheria. Il tempo sufficiente per consentire a Masaccio di lasciare ai posteri una delle più grandi prove di pittura della storia.

Le storie di Pietro sono un segno imperituro di Bellezza fatta disegno e colore. Sei secoli dopo la loro realizzazione emozionano chiunque si soffermi nello spazio angusto della Cappella, lasciano un’impressione di unicità assoluta, di eccezionalità delle circostanze, del luogo, delle sensazioni, come quella che deve aver avvertito il primo uomo sulla luna. Stando nella penombra, nel precario silenzio consentito dai bisbigli dei turisti, si comprende a fatica come quel ragazzo abbia potuto trarre da dentro di sé le immagini di quei feroci campioni di umanità e rappresentarle così perfettamente. Quelle figure mugugnano, strepitano, battono i pugni, digrignano i denti. Parlano con voci profonde e roche. Soprattutto, quelle figure hanno i piedi piantati per terra. Masaccio le ha fatte piangere, tremare di freddo, arrabbiarsi, perdonare, supplicare e ridere. Ma sempre partendo da terra, come da terra sempre partono i viaggi spaziali. Ha preso gli abiti che gli altri tenevano appena appoggiati su manichini senza peso, senza volume, per farli indossare a creature in carne e ossa, muscolari, imponenti, fiammeggianti negli sguardi. Per loro ha inventato una autentica personalità, che si è presa tutto lo spazio necessario occupando i corpi, percorrendo i tratti nervosi dei gesti, facendosi ombra nelle pieghe dei volti o luce sulle bianche campiture delle vesti.

Da un burattino etereo e fiacco al comando di dio, Masaccio ha plasmato un uomo vivente e autonomo, solido nel corpo e libero nell’anima.

Il Pagamento del Tributo (Fig. 2) è un monumento impressionante, un brano di pittura senza tempo: si ha l’impressione di ammirare un ordine naturale perfetto, ma impastato del fango a noi familiare della concreta umanità. Un ordine in cui l’Uomo ha un ruolo non subordinato. Si muovono, quelle austere figure, parlano, gridano, ti scrutano. Raccontano la storia sacra con la serietà semplice e vera che si riserva solo alle cose importanti. Tutto è solenne, ma non gelidamente formale, come quando il nonno raccontava le tragedie della guerra e intorno a lui si faceva un rispettoso silenzio.

Pietro obbedisce a Cristo che gli impone di pagare il tributo al gabelliere. Non ha i soldi. Raccoglie la sua fede e li cerca nel ventre del pesce. Li trova e compie il suo dovere. Avviene tutto in un unico spazio, in un unico tempo, scanditi dal ritmo solenne dei gesti.

Alberi spogli, rive desolate, grigie corone di rocce: la Natura lancia un tuono possente che dovrebbe intimidire gli umani, ma non è così. Nessun umano è qui intimidito, perché intento in qualcosa. Ha un compito, un ruolo, sta scrivendo la storia, non c’è tempo per indugi o tremori.

Ogni linea converge verso il punto di fuga centrale, che è la testa del Cristo, il fulcro di tutta la scena. Ogni movimento della quinta teatrale porta verso di lui, ma gli attori non sono travolti. Hanno un ritmo proprio, armonico e integrato, ma libero, come in una coreografica danza perfettamente orchestrata. C’è un ordine, certo, un mandato, accolto con tragica concentrazione, con serietà. Portarlo a compimento, tuttavia, è impresa umana, non divina. Nessuna magia, nessuna indulgenza, solo azioni concrete, pesate, rumori, gesti, fatiche. Vivere è cosa da uomini, ricordatevelo, sembrano dire a chi guarda i volti scolpiti degli apostoli.

Masaccio dipinge il carisma, il sudore, le voci. Il suo inno alla Bellezza non ha bisogno dei fondi dorati, degli inserti metallici o delle sontuose cornici che abbondavano invece nei capolavori del Gotico Internazionale, di cui la città si riempiva in quegli anni (basti pensare al Corteo dei magi di Gentile da Fabriano del ’23, o al lavoro di Benozzo Gozzoli nella Cappella di Palazzo Medici Riccardi, addirittura del 1459-1462).

Questo è il vero miracolo di Masaccio, che lo pone molto al di sopra dei suoi contemporanei e ne fa un modernissimo precursore. Mentre il gusto prevalente della ricca società in cui viveva e doveva lavorare indulgeva ancora a una visione convenzionalmente astratta e fiabesca della rappresentazione, Masaccio portava in scena la plasticità sanguigna del mondo reale. Presentava la Bellezza dei contenuti in una formidabile sobrietà delle forme, ricordando ai suoi contemporanei (e ai posteri) che è insensato nascondere la verità in mezzo all’oro e ai damaschi: mostrarla invece senza filtri, con onestà, è la più grandiosa delle rivoluzioni estetiche, il più autentico canto di lode alla rinascita umana.

Masaccio, in soli cinque anni di attività, ha inventato il Rinascimento e l’ha lasciato in dono a noi tutti.

Poi, in punta di piedi, senza pretendere nulla e senza ricevere nemmeno un applauso, se n’è andato per sempre.

Non possiamo non volergli bene.

Figura 1. Masaccio, Trinità. Basilica di Santa Maria Novella, Firenze.
Figura 2. Masaccio, Il pagamento del Tributo. Chiesa del Carmine, Firenze.