Edouard Manet, 1832-1883
Il Balcone, Museo d’Orsay, Parigi
Il 23 gennaio è l’anniversario della nascita di Edouard Manet, venuto alla luce a Parigi nel 1832. Per chi ama la Pittura, è una data importante, perché chi ama la Pittura ama Manet.
Su di lui sono state scritte intere biblioteche, quindi non posso aggiungere nulla di particolarmente originale.
Voglio però provare a dire -questo solo forse può essere un contributo sensato- ciò che ha rappresentato e rappresenta per me; voglio provare a dire perché quello che ha fatto mi emoziona profondamente.
È un tentativo, ovviamente, perché è difficile spiegare quella relazione emotiva, istintiva, viscerale, che ti lega ad alcune formidabili immagini. A volte, semplicemente, non si può.
Manet ha dipinto dopo la rivoluzione realista di Courbet, che ha ammirato profondamente: ma non è stato un realista. Manet ha dipinto dopo la folgorante parabola classicista di Ingres, che ha lasciato tutti, lui compreso, senza parole: ma non è stato un classicista.
Si è affermato a Parigi insieme a un nucleo di straordinari autori che stavano rivoluzionando l’idea di rappresentazione pittorica, inventando l’Impressionismo. Si batteva per le loro idee, lavorava con loro negli stessi atéliers, passeggiava con loro, cenava con loro negli stessi caffè: ma non è stato un impressionista. Manet guardava tutti, ascoltava tutti: Couture, il suo primo maestro, il romantico Delacroix, il magnifico Rembrandt, e poi Velasquez e Goya, Tiziano e Filippo Lippi, dei quali ammirò e copiò il lavoro in una sua famosa visita agli Uffizi. Guardava e ascoltava tutti, sapeva cosa volessero la gente e l’Accademia, il Salon, i critici e suo padre, i naturalisti che lo difendevano e i borghesi bigotti che lo disprezzavano: sapeva tutto questo ma continuava a dipingere come voleva lui.
Evidentemente nutriva un profondo rispetto per quella sua intima e personale ispirazione, che non lo faceva essere organico a nessun gruppo, ma gli permetteva di essere se stesso.
Da questo rispetto, da questo coraggio, nacque Olympia, il suo quadro forse più famoso, e di sicuro quello che gli tirò addosso gli insulti peggiori, facendo scatenare quasi una rissa al Salon del 1865, insieme al magnifico Déjeuner sur l’herbe, lo stupefacente faro di modernità del Salon des refusées del 1863: praticamente non un quadro, ma un manifesto in cornice della rottura totale con l’Accademia che stava accadendo in quegli anni meravigliosi, a Parigi. Il simbolo della nuova generazione che stava cambiando la pittura.
Così, ma forse più in sordina, più silenziosamente nacque anche Le Balcon, che io, se possibile, amo ancora di più (Fig. 1). Perché?
Forse, per quel verde acido della balaustra di ferro battuto e delle imposte, misterioso e sfacciato come un punto d’inizio, perentorio come un confine, tagliente come il filo di un rasoio. Quel verde forma un reticolo ottico da cui non si può prescindere, intorno a un perplesso e slegato gruppo umano. I personaggi ne sono totalmente dipendenti: li inquadra e li isola, li propone e li separa. Forse, per il bianco abbagliante degli abiti femminili inondati di luce, stretto tra quel verde in primo piano e il buio profondo della stanza, inspiegabilmente impenetrabile. È un bianco più caldo del dovuto, per i riflessi sul tulle e sull’organza vaporosa: invita, non respinge. Apre alla riflessione: oltre la gabbia della realtà esiste un candore tutto da scoprire.
Forse, per il blu elettrico della cravatta del tronfio Monsieur che esce dalle tenebre a rivendicare la sua supremazia sui gioielli di casa, e mostra la sua eleganza, la sua congruità formale, nell’intesa cromatica con l’ortensia e i motivi sul vaso in basso a sinistra. È il guardiano della soglia, con cui non si può non fare i conti, prima di penetrare nel misterioso mondo straordinario che si apre alle sue spalle. Lo sparato della camicia immacolata ne dimostra l’affinità con le sue protette e legittima il suo ruolo e la sua potestà. Le spalle avvolte nell’ombra lo qualificano come il Signore dell’aldilà. È Plutone, che esce a carpire Proserpina.
Per tutti questi colori, certo, io amo quel quadro e per come sono stati stesi, senza velature, senza sovrapposizione graduale, a macchie oneste e sincere.
Ma non credo solo per questo.
Io amo soprattutto la sua rappresentazione della vita, con quei tre spazi così distinti ma così collegati: quello dell’osservatore, dalla ringhiera all’infinito; quello della realtà percepibile, stretto tra il verde del ferro e il buio della casa; quello profondo e insondabile della stanza. Amo che il pur angusto spazio del mondo sensibile sia inondato letteralmente dalla bellezza, dalla luce e, perché no, da tanta malinconia, che promana, come un canto struggente di sirena, dagli occhi di Berthe Morisot, fissi nel vuoto.
Amo che l’osservatore sia presente, al di qua della balaustra, ma non rappresentato; che si senta libero di manovrare, di adottare il suo punto di vista, di restare in contemplazione estatica, di agire. Di scegliere.
Amo che alle spalle degli abiti splendenti e della seta, si apra un vasto mondo da esplorare, una profondità misteriosa. Quel buio c’è, bisogna saperlo, e non viene facilmente penetrato dalla luce esterna: vale la pena rispettarlo, accoglierlo, osservarlo, per imparare a conoscerlo.
Amo l’onestà che il suo autore ha dimostrato collocando un vigoroso guardiano sulla soglia, a vigilare il transito tra i due mondi: emerge dal primo ma esercita il suo potere nel secondo. Quella soglia non si varca impunemente, senza un confronto serrato con uno o più demoni che escono dal buio.
Amo, infine, soprattutto la sincerità quasi disarmante di questa rappresentazione: così semplice, così diretta, così tremenda.
Ci vuole tanto coraggio per fare un quadro così, lo stesso che permette a ognuno di noi di varcare la soglia, ogni giorno, per immergersi nella penombra. E di tornare ogni volta al balcone.
Manet scomparve troppo presto, nel 1883, a soli 51 anni, devastato dalla sifilide. La vedova fu costretta a mettere in vendita la sua adorata Olympia e un facoltoso signore americano si offrì prontamente di acquistarlo. Un gruppo si amici pittori, tra cui Claude Monet, Camille Pissarro e Auguste Renoir, fecero una disperata colletta e arrivarono a raccogliere la somma di 20.000 franchi, da offrire a Madame Manet per cedere il quadro al Louvre. Soltanto pochi anni prima la folla inferocita aveva tentato di distruggere l’opera, ora il più importante museo del mondo l’accoglieva tra le sue collezioni.
Essere se stesso fino in fondo non ha regalato a Manet una vita facile e sicuramente non la gloria, ma a noi tutti ha permesso di affacciarci da quel balcone.
