Michelangelo Merisi detto Caravaggio, 1571-1610
Riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria-Pamphili, Roma
Jacopo dal Ponte, detto Bassano, 1510-1592
Riposo durante la fuga in Egitto, Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Nel 1597, poco dopo essere giunto a Roma, un Caravaggio venticinquenne realizza uno dei suoi più straordinari capolavori, il Riposo durante la fuga in Egitto (fig. 2), diverso dalla maggior parte della sua produzione passata e futura, diverso da ogni altro quadro prodotto nel mondo fino ad allora.
Non c’è ancora traccia di angoscia, non trapela cognizione del dramma; si avverte già nitidamente, però, il pulsare ritmico di un talento inaudito, si ha la premonizione di quel che sta per venire.
L’ambientazione, i dettagli, la disposizione delle figure, le loro pose, le loro espressioni, tutto dice a chi osserva sbigottito che la mano dell’artefice sta compiendo una rivoluzione estetica, sta violando rapacemente ogni categoria preconcetta, ogni conquista consolidata. Sta costruendo una civiltà su rovine, solo muovendo un pennello.
Gli occhi accolgono una nuova bellezza, immensa e racchiusa, una nuova armonia, radiosa e sommessa, a rappresentare con forme e colori le cose del mondo.
È una nascita, un miracolo, un inizio, un nuovo Rinascimento dopo il Rinascimento.
Ma non è un miracolo, non è materia divina.
È questa l’illusione ricorrente che pervade il sentire quando ci si para dinnanzi l’altezza assoluta del genio e siamo convinti di avvertire un grado o più gradi di separazione, un abisso incolmabile tra noi, umani impastati di terra, e la dimensione colossale di questi giganti, fatti della materia delle nuvole.
Ogni creazione straordinariamente nuova ci dà l’impressione che venga dal nulla, anzi dal Cielo, e che il genio che la propone sia ispirato da un dio.
Cercando la natura trascendente della creazione, neghiamo che esista come forza immanente alla vita, anche la nostra.
Sì, proprio la nostra, piccola e ordinaria esistenza senza scosse, che in realtà di ordinario e piccolo non ha proprio nulla.
Ma noi così crediamo, a volte, forse perché abbiamo paura, terrore di scoprire che bellezza e genio sono presenti negli altri e in noi assenti. Abbiamo paura di non valere abbastanza, che la luce, quella vera, passi solo da alcuni. Ogni grande creazione è un nuovo inizio, certo, ma, nella storia circolare della nostra Umanità, è un inizio preceduto da infiniti altri passi, da strade percorse, tentativi, aperture. È il passaggio di un testimone, da qualcuno che arriva da lontano, verso qualcuno che aspetta chissà dove.
Il Genio esiste nei singoli, rari e preziosi creatori assoluti, certo, in misura miracolosa e incredibile; ma la sua manifestazione su questa terra è sempre, sempre, sempre la frazione di una staffetta, una fase di un gioco di squadra tra esseri umani che intrecciano relazioni infinite e profonde, attraverso il tempo e lo spazio.
Il giovane Caravaggio, prima di giungere a Roma a rappresentare le sue intuizioni e le sue delusioni in opere di sintesi assoluta che hanno cambiato la storia dell’arte e quindi dell’uomo, si era nutrito per molti anni delle intuizioni e delle delusioni altrui.
In silenzio, con amore e passione, ansioso di dare il suo originale contributo, aveva osservato attentamente i suoi compagni di strada.
Finito l’apprendistato nella bottega del milanese Simone Peterzano, allievo nientemeno che di Tiziano Vecellio, nel 1588, non sappiamo dove andò e cosa fece. Non abbiamo traccia documentaria di lui fino alla primavera del 1596, quando giunse nella capitale pontificia. Sappiamo però, da come dipinse poi, che dovette conoscere l’opera di molti maestri lombardi e veneti a lui precedenti: i fratelli Campi, Moretto, Savoldo, tra gli altri.
Dovette molto girovagare, avido di ispirazione, assimilando le immagini create dagli altri.
Tra di esse mi piace pensare, anche se non ne possiedo la prova, che ebbe modo di amare la straordinaria tela del 1547 di Jacopo Bassano, che rappresenta il medesimo soggetto del Riposo durante la fuga in Egitto. Attualmente è custodita presso la Pinacoteca Ambrosiana Milano (Fig. 1), ma pare certo che fino al 1612 fosse a Venezia.
Accostando le due opere, non è difficile sentirne l’intimo dialogo e provarne emozione. Emozione, certo, per la testimonianza quasi in diretta dei pensieri di un immenso talento, che frugava nell’esperienza altrui con già nella mente ben chiara la via da percorrere per rivoluzionarla radicalmente. Emozione per la sintesi delle ispirazioni che gli vediamo produrre, emozione per la soluzione perfetta che gli vediamo ideare. Noi apparteniamo a quella soluzione, perché apre l’era moderna. Oggi celebriamo Caravaggio e molto meno i fratelli Campi o lo stesso Bassano, Savoldo, Moretto o Peterzano, proprio per l’inarrivabile visione profetica sulla modernità che il Merisi ci ha regalato.
Non dovremmo mai dimenticare, però, che una sintesi non è mai possibile senza adeguate premesse che la alimentino; che i destini dei viventi sono finemente intrecciati e correlati l’uno all’altro da legami invisibili a occhio nudo ma evidenti allo sguardo della storia.
Scoprire il legame tra Caravaggio e un minore suo ispiratore, non è un fatto banale, perché ricostruisce una continuità diacronica dell’ispirazione umana, di cui anche noi, gente comune siamo parte integrante e fondamentale. La comunità degli umani forma come un bacino di affetti e valori, pensieri e legami, relazioni e influenze, fittamente intersecate, finemente correlate, in cui ogni singola azione di ogni individuo può avere effetto, e lo ha, su tutti gli altri.
Non dovremmo mai dimenticare che ogni nostro pensiero, parola o azione può innescare il meccanismo meraviglioso e assolutamente non eccezionale che porta a una creazione originale, può fungere da mattone per una costruzione più ampia, completata con il contributo di tutti.
Ognuno è responsabile della sua creazione, ognuno può innescare e favorire la creazione dei compagni di viaggio.
Per alcuni l’esito finale può essere un quadro immortale, per altri – perché no? – una vita realizzata e felice.

