Giotto, partiamo da qui

Giotto, partiamo da qui

Giotto di Bondone 1267-1337

Cappella degli Scrovegni, Padova

Ci sono momenti cruciali della vita di una singola persona e della storia degli uomini in cui, a partire da una stasi apparente, si generano improvvise, quasi inspiegabili fughe in avanti, che squarciano il velo dell’ignoto e fondano la modernità. Dalla crisi al cambiamento, dall’intuizione dolorosa alla rivoluzione e alla visione aperta su nuovi, sconosciuti orizzonti: sono istanti di densità assoluta che ogni essere umano può sperimentare per sé.

Una elegante teoria che descrive l’andamento dei processi evolutivi dei viventi sulla Terra, quella degli Equilibri Punteggiati di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, parla di lunghissime fasi di equilibrio pressoché statico, interrotte da momenti puntiformi di speciazione frenetica, in corrispondenza di radicali mutamenti delle condizioni ambientali, climatiche, geologiche, ecologiche.

 Anche la Storia dell’arte, come quella del pensiero, non si sottrae, a modo suo naturalmente, al ritmo universale dell’equilibrio punteggiato: è costellata – come il cielo in una notte senza nubi- di miriadi puntiformi di luci che spezzano l’equilibrio, giunzioni tra epoche e culture, molto spesso misteriosamente concentrate nei momenti di passaggio tra un secolo e l’altro. È come se per decenni si accumulassero in silenzio presupposti, cause puntiformi invisibili, fatte di esperienze, pensieri, fallimenti e tentativi parziali che poi, raggiunto un valore soglia di tensione ideale, su irresistibile sollecitazione di circostanze storiche, economiche, culturali, politiche, all’improvviso dessero luogo a una rapidissima produzione di  fenomenale novità, a una rivoluzione che solo in apparenza è concentrata nel tempo, o almeno lo è solo nei suoi aspetti più evidenti e visibili, e che invece rappresenta l’esito finale di un lungo e articolato percorso. E siccome la Storia dell’arte e la Storia della pittura non sono altro che la storie di artisti e pittori, uomini che intrecciano le proprie biografie intellettuali con quella  del pensiero umano, questi momenti di vitale transizione si riconoscono sempre e si identificano nell’apparizione di personalità geniali: straordinarie intelligenze sintetiche che abbracciano la tradizione senza esserne più soggiogati, propongono la novità con l’eleganza commovente di ogni rivoluzione, raccontano il futuro con la chiarezza esatta di ogni profezia.

Sono personalità dal pensiero autonomo e gigantesco che indicano con naturalezza nuove strade nel cosmo a chi non riesce nemmeno a concepirle. 

Se uno spettatore alieno avesse potuto sedersi qualche decennio ad osservare l’Europa tardo-medioevale, avrebbe potuto cogliere uno di questi straordinari momenti e ammirare una di queste meravigliose personalità.

La scoperta delle potenzialità dell’arco a sesto acuto aveva in pochi anni segnato la fine delle placide linearità romaniche, lanciando verso il cielo le guglie temerarie di un nuovo formidabile stile architettonico: il gotico. Finalmente si poté rinunciare ai massicci muraglioni tra i pilastri, alla rassicurante semplicità delle piante a simmetria centrale, al buio tetro degli interni. Le esili pareti ricamate da vetrate variopinte proiettavano riflessi cromatici nuovi a fendere le tenebre delle cattedrali normanne. 

La prima conseguenza pratica fu l’apertura di spazi inauditi a disposizione della fantasia degli artefici, che vennero incoraggiati ad avventurarsi in ogni sorta di sperimentazione ornamentale: vetrai, smaltatori, tessitori, orafi, ebanisti, carpentieri e soprattutto scultori, furono chiamati a riempire chilometri di nicchie, colonne, archi rampanti, volte a crociera, lunghe navate, portali, rosoni. 

La scultura non poteva che pretendere per sé un ruolo di assoluta preminenza, in questa sfrenata gara di efficacia rappresentativa, per la sua indiscussa e intrinseca capacità di occupare lo spazio nelle tre dimensioni. Ed ecco che in Francia, in Germania, in Boemia le figure umane in pietra cominciarono a prendere vita, volume, plasticità. I visi si composero in espressioni, le fisionomie finalmente rivelarono i caratteri, le espressioni mostrarono le emozioni. Le vesti si liberarono in panneggi convoluti che lasciavano intuire, meravigliosamente, le forme dei corpi sottostanti. Un nuovo popolo di statue antropomorfiche impose la sua legge di bellezza e armonia nelle chiese di mezza Europa.

La pittura segnava il passo, non poteva reggere il confronto, prigioniera com’era di un rigido vincolo bidimensionale e del convenzionalismo della rappresentazione per simboli: un limite tecnico e un altro filosofico apparentemente insuperabili. 

Ogni limite, però, è solo il punto di partenza sfidante per l’illimitato potenziale della mente umana, ogni frontiera esiste per essere varcata. 

In Italia covava, sotto la cenere delle antiche civiltà decadute, il fuoco di una possibile rivoluzione, che si fece trovare pronta alla chiamata della storia grazie all’inaudito talento e alla geniale visione di un fiorentino, Giotto di Bondone, nato nel 1267, due anni dopo Dante Alighieri. 

Giotto conosceva il tesoro nascosto nell’arte bizantina, che aveva conservato per mille anni, cristallizzati per i posteri, i raffinati virtuosismi dei grandi maestri della pittura classica: lo scorcio, il chiaroscuro, il senso istintivo della profondità nei rapporti tra i corpi e il loro ambiente. Ma conosceva ed amava altrettanto lo spirito della rivoluzione gotica che aveva cambiato il modo di sentire e vivere l’arte nel suo secolo.

Ci volevano la sua immane sensibilità e il suo talento sovrannaturale per tradurre quelle due ispirazioni in un’unica sintesi di straordinaria forza evocativa: un’arte che sapesse riprodurre sui muri delle cappelle o sulle tavole di legno degli altari la figura umana, la natura, lo spazio, con la plastica efficacia che la nuova vena della scultura mitteleuropea stava mostrando, nella infinita gamma di soluzioni che solo disegno e colore potevano offrire. 

E da Giotto la Pittura ripartì, in una corsa inarrestabile che per centinaia di anni la vide di nuovo in testa, a tagliare traguardi sempre nuovi in successione convulsa, uno più magnifico dell’altro.

Come si fa a non amarlo?

E lo amiamo perché ci alleggerisce e ci rallegra, come suggeriva il grande critico americano Bernard Berenson. Basta concedersi qualche minuto di abbandono nella Cappella degli Scrovegni, a Padova, per sperimentarlo facilmente.

Quel luogo è sacro, ma non perché sia ancora destinato al culto religioso, come quando è stato edificato. È sacro perché rappresenta il punto di origine di un’esperienza umana che ha prodotto bellezza e meraviglia per i secoli a seguire, fino ad oggi.

Ogni percorso figurativo realizzato da un essere umano è oggi e per sempre sarà in debito con quel ciclo di affreschi cui Giotto lavorò su commissione del ricco banchiere padovano Enrico Scrovegni, tra il 1303 e il 1305. Un edificio di una semplicità disarmante, visto dall’esterno: mattoni rossastri, alte e spoglie pareti.

Chiusa la porta d’ingresso alle nostre spalle, però, succede l’impensabile. L’occhio è rapito da una selva fitta di immagini antiche, che ricoprono interamente, in più registri, le pareti, raccontando la vita della vergine e di suo figlio come in un film, scena dopo scena. Si ha subito un’impressione fortissima, si sente che qualcosa accade, che un racconto inizia e si sviluppa davanti a noi, nel più totale silenzio. Scorrono scene in successione rapida, immagini che non conoscono la lingua astrusa dei simboli: per decifrarle non servono chiavi di lettura, erudizione, saperi preliminari. Tutt’altro. Giotto libera la pittura dalla sua prigione erudita, dalla gabbia di simboli che la rendeva distante dall’occhio e dal cuore dell’uomo comune.

Si rivolge ad ognuno, parla non interrogato, attraverso pagine e pagine di forme familiari, che appartengono alla semplice vita quotidiana. E difatti le riconosciamo subito, con sollievo, come se ascoltassimo il racconto di un amico al bar. Uomini, cose, animali escono dalla patina dell’affresco e ci vengono incontro, ci coinvolgono con semplicità nelle loro storie, trascinati verso di noi dal chiaroscuro rude, dai colori terrigni, dall’infallibile sintesi del Maestro. Giotto ha una quasi sovrumana capacità di abbozzare il gesto e la forma, quel gesto e quella forma che la nostra mente riconosce perché li ha visti e rivisti infinite volte, intorno a sé, nella vita (Fig. 1). È un linguaggio primordiale, noto a tutti, che parla alle radici comuni, affondate nella memoria istintiva, nell’album fotografico di un’esistenza vissuta. Percepire quelle forme procura un piacere profondo e intenso proprio per questo, perché evoca il sapore dell’esperienza domestica. La nostra mente pensante si distende perché si sente a casa, molto più che al cospetto di linee geometriche e simboli convenzionali da interpretare. Un uomo schizzato da Giotto ha l’aspetto rassicurante dell’amico o del parente, ti porta per mano in un viaggio nell’affresco, come fosse una gita domenicale in famiglia. La qualità tattile delle sue figure, dice Berenson, è il segreto di questa magia. Ed essere stimolati nella propria memoria tattile rende quelle figure familiari al primo sguardo, senza alcuna fatica. Rimanda alla nostre prime infantili esperienze del mondo, quando per cominciare a conoscerlo dovevamo integrare le informazioni astratte della vista con quelle conturbanti e sanguigne del tatto. 

È tutto molto semplice, in fin dei conti. Quelle immagini ci ricordano di quando, per conoscerle, assaggiavamo le cose, palpavamo le forme. 

Ecco che, allora, mente e cuore, anima e cervello, sensi e coscienza, tutti insieme felici di questa esperienza immediata, autentica e inebriante, provano una piena, totale soddisfazione. È una festa della memoria, un vernissage degli istinti più profondi. È la fiera del nostro più autentico essere umani. 

Giotto gratifica l’osservatore, lo premia e lo accarezza con questa morbida e calda mammella figurata che lo riporta alle prime e assolute gioie della suzione. Gli offre un godimento primordiale che prima di lui nessuno aveva saputo dargli. Lo rende protagonista, facendolo sentire capace e vero, un essere senziente in un mondo di forme e volumi che riconosce e ama, con semplicità e naturalezza.

Giotto ha riportato vita e umanità nella Pittura, segnando un nuovo punto di inizio, la nascita di una nuova era. Ha riportato il neonato nella mangiatoia e indicato a tutti la stella cometa.

Figura 1. Giotto, Compianto sul Cristo morto. Cappella degli Scrovegni, Padova.