Fillide

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, 1571-1610

Giuditta e Oloferne, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma

Anonimo

Giuditta e Oloferne, Collezione Privata, Tolosa

Per tre volte nell’arco di due mesi sono tornato alla Pinacoteca di Brera, a Milano, in preda alla febbre. Non nel senso che avessi una broncopolmonite da trattare con suffumigi di nebbia meneghina. Intendo dire che ero animato da un’eccitazione febbrile, che mi ha portato a visitare ripetutamente quel tempio dell’arte figurativa, nel tentativo di farmi un’idea precisa su una certa questione di cui voglio parlarvi.

La notizia che avevo fortuitamente ricevuto da un amico era sensazionale, di quelle da giustificare, secondo me, un viaggio a Milano persino dal Sudafrica, figuriamoci da Roma, che dista solo tre ore di treno.

Prima di arrivare a Milano e a Brera, però, dobbiamo chiarire più di un antefatto. Abituatevi, perché questa narrazione è costruita a scatole cinesi.

Tutto ha avuto inizio quando, nella buia e polverosa intercapedine della soffitta di un’antica residenza di campagna nei pressi di Tolosa, nell’aprile del 2014, è stato scoperto un quadro in ottimo stato di conservazione, databile tra il 1600 e il 1610, raffigurante l’episodio biblico di Giuditta che taglia la gola a Oloferne (Fig. 2).

Le premesse e le circostanze del ritrovamento, insieme alle caratteristiche del quadro, erano tali da destare un immediato interesse negli addetti ai lavori e, manco a dirlo, da accendere le più sfrenate fantasie erotiche nei lussuriosi amanti della pittura, come me.

Il soggetto, innanzitutto; poi la sua redazione, la datazione presunta, lo stile, la qualità della pittura, il tipo di cornice… tutti elementi che hanno provocato nei fortunati primi osservatori dell’opera un caldo brivido lungo la schiena e attirato immediatamente l’attenzione degli appassionati di mezzo mondo e persino della stampa generalista, che di solito di quadri si interessa poco o niente.

Perché? – vi chiederete.

E qui è necessario risalire ancora nel tempo, a un inizio prima di questo inizio. E aprire un’altra scatola polverosa.

Negli anni di passaggio tra il XVI e il XVII secolo, tra il 1599 e il 1602, il giovane e lanciatissimo Michelangelo Merisi (era il momento della prima prestigiosa commissione pubblica, il Ciclo di San Matteo per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi) si trovava a Roma, dove era giunto senza un soldo appena qualche anno prima dalla natia Milano.

Tra una rissa in osteria e un incontro di pallacorda, tra una sbronza e una passione amorosa, aveva trovato il modo di scalare rapidamente le classifiche di notorietà dei pittori della Capitale, passando dalla bassa manovalanza nelle piccole botteghe di maestri senza personalità, come Lorenzo Carli o Antiveduto Grammatica, agli atelier più prestigiosi -come quello di Giuseppe Cesari Cavalier d’Arpino, che mal digeriva il crescente successo del giovane apprendista che si era messo in casa- fino a raggiungere la totale autonomia creativa e professionale.

D’altronde, non sarebbe potuto accadere nulla di diverso.

Caravaggio era ancora un ragazzo, ma già esprimeva un talento di vastità sconosciuta fino ad allora. Aveva un’ispirazione geniale e rivoluzionaria, una visione totalmente innovativa, una capacità tecnica così straordinaria da apparire innaturale. Qualsiasi cosa toccasse la faceva diventare bella, preziosa, unica.

Non deve pertanto stupire che, in breve tempo, tutti i più munifici mecenati della città papale finirono per accorgersi di lui.

Dopo i trionfi delle cappelle Contarelli e Cerasi, Michelangelo da Caravaggio dipinge, su commissione del facoltoso banchiere Ottavio Costa di Albenga, uno strepitoso Giuditta e Oloferne, la cosiddetta Giuditta Coppi (dal nome dell’ultimo proprietario privato, prima che il dipinto fosse acquistato dallo Stato Italiano, nel 1971), oggi custodita presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, a Roma (Fig. 1).

È un olio su tela di un metro e mezzo per due: tre metri quadri di rara, conturbante, assolutamente inaudita bellezza.

Ottavio Costa era talmente ipnotizzato dal dipinto che lo fece proteggere da un drappo di velluto pesante, per mostrarlo solo agli amici più fidati e volle precisare nel testamento del 1632 che non fosse mai e poi mai alienato dai suoi eredi.

Chiunque abbia amato o ami una donna, una persona, un ricordo, la vita stessa, e la ami di quel sentimento così intenso da far sentire un dolore dentro al solo pensiero di smarrire l’oggetto d’amore; chiunque tema di perdersi nel buio, chiunque trasalisca quando un viso amato gli appare davanti e abbia sentito almeno una volta il cuore battere in gola come un martello al minimo segno della presenza della persona amata, un profumo, un colore, il suono della voce, un biglietto, un messaggio, un vago cenno da lontano…

Chiunque abbia vissuto o viva tutto ciò non riesce a rimanere indifferente di fronte a questo stupendo capolavoro.

In una stanza buia (all’alba? O forse è l’ora più cupa della notte?), un bruto seminudo passa in un istante dal sonno alla morte, per mano di una giovane donna che gli affonda in gola una lama.

È un episodio dell’Antico Testamento, tratto dal Libro di Giuditta appunto, ove si narra del nobile gesto della giovane e bellissima vedova ebrea che salva gli abitanti della città di Betulia, assediata dal generale assiro Oloferne, dapprima concedendosi a lui e poi uccidendolo nel sonno, dopo averlo ubriacato.

Il fatto di sangue, eroico ma non per questo meno efferato, nella sua truculenza e nei risvolti pruriginosi (mai è stato chiarito se il rapporto carnale tra l’orco e la giovane vedova fu consumato davvero) ha sempre diviso i credenti, al punto da indurre i riformisti protestanti e gli ebrei a considerare apocrifo l’intero libro che lo riporta.

In tempi di Controriforma, però, e forse proprio per questo, il tema era considerato paradigma dell’ortodossia cattolica romana, evocativo del trionfo del bene sul male, della Chiesa sulla pericolosa e brutale eresia scismatica: da cui la succosa commissione al nostro Merisi.

Esisteva forse argomento più appropriato e adatto a valorizzare quel sovrumano e tenebroso talento? Non credo.

La luce delle fiaccole investe le figure da sinistra a destra: scolpisce i muscoli orribilmente contratti di Oloferne, il cui volto è deformato in una smorfia da ebbro violento, sorpreso e impotente, per l’ultima volta rabbioso, sconfitto senza possibile rivincita da una giovane donna che credeva di aver sottomesso, da un popolo intero che era certo di avere schiacciato.

Che sia la luce delle fiaccole possiamo pensarlo, presumerlo per la logica lineare propria dei comuni mortali. All’occhio che guarda, tuttavia, non sembra così: è troppo intensa, compatta, pastosa. Una fascia di uniforme chiarore senza riflessi rossastri, una via lattea dorata che conduce fin dove intende il pittore.

Non sto dicendo che sembri una luce artificiale, no. Neanche per un attimo. Gli orridi neon posticci lasciamoli ai Rubens di turno, o agli epigoni maldestri, ai copisti di ogni epoca del Maestro, mistificatori di luci sublimi.

Questa è una luce del tutto naturale, ma- paradosso nel dramma- è solare, non di fiamma di torcia o candela. Una luce solare, di notte, in Giudea.

Nel buio della ragione, nella cupa oscurità fondamentale che avvolge gli umani e li spinge fin dentro gli abissi dell’abiezione, c’è un fascio compatto e radioso di sole.

Penetra nella tenda del Generale, si fa strada in un’atmosfera sospesa, solcando lieve lo spazio, come la spada di Giuditta che affonda senza sforzo apparente nel gozzo di Oloferne.

Ed ecco che, baciata da questo rivolo prodigioso che fende la tenebra, compie il suo trionfale ingresso nella storia dell’arte una straordinaria figura, una ragazza dalla pelle candida e dai riccioli biondi, deliziosa nella persona con cui si presenta, terribile nell’azione che compie.

Una leggiadra sgozzatrice dall’abito sontuoso e provocante, dai floridi seni prementi sotto il tessuto velato, orripilata dal suo stesso gesto ma risoluta fino in fondo nel compierlo, mentre la vecchia nutrice Abra, la osserva con gli occhi sgranati, la smorfia affondata nelle rughe di un viso grottesco.

Né il barbaro decapitato, né la vecchia e passiva complice sono pienamente, veramente, completamente umani. Sono maschere, sillabe, frammenti. Restano paradigmi di semplici stati vitali, di singole proiezioni dell’anima, zattere abbandonate su un oceano di disperazione. La forza della vita sembra fermarsi in loro, in superficie, senza attingere al contatto profondo con la vastità dell’universo.

Giuditta ne incarna, invece, il repertorio completo, integrato, sintonico. Per questo la luce la sceglie. È un cantico, un’ode alla bellezza nella sua complessità, come capacità di accogliere il male senza smarrirsi, di passare nel fango senza sporcarsi, di vivere, come un vero essere umano, nelle passioni dolorose che simulano la morte e nelle rinascite improvvise, senza fuggire, senza sottrarsi.

È un poema d’amore, un sonetto perfetto, come la superficie lucida del velluto rosso del sipario che sovrasta la scena: spezzata in pieghe profonde, improvvise fughe verso l’ombra, ritorni fulminei alla luce. Non promette quiete e semplicità, ma articola il canto polifonico della complessità, la stessa del suo creatore.

I versi d’amore promanano tutti dalla figura di Giuditta, la luce va verso di lei, ma anche da lei proviene. Una ruga ne solca la fronte, una smorfia ne increspa le labbra, fissando per sempre la sua umanità. Intorno rimane il dramma, la truce necessità della vita, la sua violenza, la sua crudezza. L’ombra, quella patina scura che avvolge i pensieri di Abra e l’ultimo rantolo del tiranno sgozzato, sembra essere il colore del mondo, una lama depressiva e fredda che può recidere irrimediabilmente qualsiasi sogno, qualsiasi speranza.

Ma il cuore del quadro è Giuditta, da lei parte un battito, un fremito di vita, di energia luminosa che ripristina ogni equilibrio e porta alla sintesi. Non c’è orrore che tenga: la bellezza, la giustizia, l’amore… possono vincere; anzi, vincono. Nonostante tutto. Quella ruga delicata, quello sguardo sofferto, sono la salvezza del genere umano perché gridano al mondo che si può vincere il male senza diventarne seguaci, si può combattere l’ombra senza precipitarvi dentro e mischiarsi all’orrore.

Un quadro richiesto per celebrare la Controriforma, viene eseguito da un genio a strati semantici: il copione obbedisce con diligenza, la regia confonde le carte portando in scena la luce e gli interpreti finiscono per raccontare al pubblico attonito tutt’altra storia.

Un capolavoro straordinario.

La voce corre, in ogni bottega d’Europa si parla dell’uomo che dipinge il reale, che porta la vita in pittura, senza nascondere nulla. Artisti famosi e affermati scendono da ogni dove in pellegrinaggio a Roma, per ammirare i prodigi del giovane maestro lombardo.

Trovano le sue tele, ma non lui.

Caravaggio è fuggito precipitosamente per sottrarsi al capestro, avendo ucciso, in un alterco da strada, un capetto di quartiere, di famiglia potente: Ranuccio Tomassoni. È il 28 maggio del 1606.

La materia fosca che sgorgava dall’anima inquieta e si fissava su tela, irrompe nella vita reale. Si produce qui la frattura definitiva tra un’intuizione profonda di sintesi tra ombra e luce, e l’incapacità materiale di un uomo a tenere in equilibrio quelle due forze nella sua stessa vita. Un’onda di tenebra insegue quella esistenza raminga, la tallona sempre più da vicino, fino a ghermirla, quando, in ultimo, il fuggitivo esausto si consegna al suo destino su una desolata spiaggia toscana.

Subito dopo la fuga da Roma, tra l’ottobre del 1606 e il luglio del 1607, dopo un’iniziale sosta nei feudi dei suoi protettori Colonna, Caravaggio trova rifugio a Napoli.

È già così famoso che i giovani pittori nord europei, che vivono numerosi nella ricca capitale meridionale, lo ammirano come un maestro e lo accolgono tra loro. Fioccano le committenze, si susseguono i capolavori.

Nello studio dei fiamminghi Louis Finson e Abraham Vinck, che ospitano il Merisi e sono suoi amici, nel 1607 due lettere di due diverse persone indirizzate entrambe al Duca di Mantova, sempre in caccia di buoni dipinti, segnalano la presenza di due straordinari quadri di Caravaggio, che nel frattempo è salpato per Malta: la Madonna del Rosario (ora a Vienna) e un ‘Oliferno con Giuditta’.

Per molti buoni e comprovati motivi che qui sarebbe troppo lungo riferire, la critica ritiene che quest’ultima sia una seconda versione del quadro dal medesimo soggetto, realizzato a Roma qualche anno prima.

Una seconda versione originale della Giuditta Coppi.

Caravaggio è tornato dunque sul tema, in quei mesi a Napoli, evidentemente con rinnovata e diversa motivazione. Del resto lo ha fatto altre volte, per altri soggetti: la Cena in Emmaus, su tutti, che nelle due antipodiche versioni, la Mattei della National Gallery e la Patrizi di Brera, racconta perfettamente il complesso percorso evolutivo della sua ispirazione.

Purtroppo, della seconda Giuditta, arrivata ad Amsterdam al seguito di Finson e Vinck e lasciata in eredità dal primo all’amico nel 1617, si perde ogni traccia.

Oggi non sappiamo dov’è. Sappiamo però com’era.

E lo sappiamo perché i giovani fiamminghi non si limitavano ad ammirare il Maestro: lo hanno copiato e ricopiato innumerevoli volte, con esiti diversi, alcuni brillanti, altri meno. Esiste oggi un gran numero di copie d’autore dei quadri di Caravaggio, molte delle quali praticamente coeve agli originali.

Tra le migliori ci sono proprio quelle di Finson (la Maddalena in estasi, la Crocifissione di Sant’Andrea) e, naturalmente, per la nostra storia, la più importante è la copia della Giuditta e Oloferne, seconda versione, quella napoletana.

Il quadro è custodito a Napoli, a Palazzo Zevallos Stigliano e la critica, dopo lunga incertezza è oggi quasi unanime nell’attribuirla definitivamente al pittore fiammingo: Finson la eseguì copiando dall’originale, che come abbiamo visto era con lui a Napoli nel 1607 e successivamente ad Amsterdam fino alla morte (Fig. 3).

Abbiamo dunque oggi una buona copia (che sia di Finson, della Gentileschi, di Filippo Vitale o di un altro poco importa) dell’originale caravaggesco mai più ritrovato.

La scena è simile, ma non uguale a quella della Giuditta Coppi.

La luce viene da sinistra, ma non conduce a Giuditta, se non attraverso un percorso contorto; si disperde sul lenzuolo del letto disfatto in primo piano, si riflette sull’emiviso destro della vecchia Abra, che ricorda uno zombie più che una fantesca, rischiara volto e scollatura della giovane vedova per poi precipitare nel pozzo senza fondo del suo pesante abito di broccato nero.

Giuditta è una vedova triste e sprezzante, senza passione, luminosità interiore, eroismo. È buia, come buia è l’azione che compie. Per dovere, per obbligo, ma anche forse per profonda disperazione.

Il sipario di velluto rosso, abituale cornice del dramma caravaggesco, si contorce in un nodo che espone riflessi biancastri di tessuto liso. È un triste nodo senz’anima, spento come una candela nella luce grigia dell’alba.

Neanche per un istante si può essere indotti a trovare la vita, in queste figure, sagome rigide di cartone su un palcoscenico dimesso. Non c’è sintesi, non c’è speranza, solo condanna, sacrificio, espiazione. C’è molta Controriforma, e niente Caravaggio. Copione, regìa ed interpreti svolgono il compito assegnato, senza gli acuti del genio.

È una copia, evidentemente, priva della magia dell’originale.

E noi manteniamo nel cuore un pensiero trepido per quel capolavoro perduto, che avrebbe raccontato chissà quale storia diversa.

Poi, ecco che un giorno aprono quella soffitta.

C’è dentro una Giuditta, ancora lei.

La scena, la redazione, la struttura, sono identiche a quelle della copia di Finson. Identiche. I primi esami depongono per una datazione abbastanza circoscrivibile: il primo decennio del 1600.

Sono proprio quegli anni.

Ma c’è di più, molto di più: nel quadro di Tolosa ritorna la luce, quella giusta. È luce solare, nel cuore della notte. È la magia che non solo rischiara, ma guida attraversando il dramma. Conduce verso Giuditta, la investe, la avvolge sul viso, si ripiega in una tenue ombra nell’incavo di una guancia, si appoggia con malizia sui seni gonfi, come una crema da corpo lucida e uniforme. E Giuditta, pensierosa, quasi distratta, ne rimanda un poco verso di noi, non la fa morire del tutto tra le pieghe della pesante cappa di velluto nero dell’abito listato a lutto.

Il nodo rosso del drappo è di nuovo rosso, è un grumo di passione irrisolta, è uno scoppio di emozione conturbante, appena emergente dal buio.

Il quadro è di fattura squisita, siamo su un pianeta mai sfiorato da Finson.

Il buio alle spalle di Abra ti risucchia dentro, ma il candore della pelle di Giuditta ti tiene a galla in questa vita, in questo mondo così duro e triste, ma così pieno di bellezza.

I primi osservatori, i critici, gli studiosi si fermano e trattengono il respiro; percepiscono che forse siamo di fronte a uno di quei miracoli che poche volte accadono nella storia: forse la Giuditta di Tolosa è proprio l’originale perduto, forse è il canto tardivo del Maestro ramingo, la sua chiosa ai versi d’amore per la prima Giuditta.

Un grande studioso, Nicola Spinosa, esperto di pittura barocca, si espone per primo: è Caravaggio. Il Louvre si fa avanti, si prepara all’acquisto, lo Stato francese ne vieta la vendita all’estero. Altri esperti intervengono, formulano ipotesi: non è originale, è Finson, è Guerrieri, è un altro talentuoso copista.

Da quaggiù, si capisce poco, si soggiace a un tumulto di combattuti pensieri: la gioia per il ritrovamento, la rabbia per la prelazione francese, la curiosità- qualora ne fosse confermata l’autografia- per la seconda versione del Maestro di un capolavoro che già tutto aveva detto.

Poi, la svolta brillante. Si decide di esporre a Brera la Giuditta di Tolosa, accanto alla copia napoletana di Finson, nella medesima sala con un altro grandissimo Caravaggio, come la Cena in Emmaus, versione Patrizi, per un primo, necessario confronto, possibile a tutti.

Da qui parte la mia storia, da qui la mia febbre: dovevo andare a vedere. Sapevo che i dipinti baciati dal genio sanno dialogare tra loro, sanno parlarsi, se messi vicini. E io ero curioso di ascoltare quello che avevano da dirsi.

Così sono andato. Tre volte.

La prima non ho voluto nemmeno provare a capire, ho solo guardato, ma distratto da altro, Bellini, Mantegna, Piero, Raffaello, dalla strepitosa pala di Ercole de Roberti e dai teleri di Veronese e Tintoretto, mi sono smarrito. Non ho sentito i quadri parlare.

La seconda volta ero più preparato.

Avevo rivisto la Coppi, un pomeriggio solitario di domenica. Avevo letto il saggio di Spinosa e altri contributi critici importanti. Una volta dentro Brera, poi, ho avuto la forza di non fermarmi davanti a Carlo Crivelli, Garofalo e Dosso Dossi. Giunto nell’ultima sala, ho tenuto a lungo gli occhi posati sulla Cena in Emmaus, delicatamente, rispettosamente, per riabituarli alla lingua di Caravaggio, come si riabitua la vista alla luce dopo un soggiorno forzato nel sottosuolo.

E poi ho guardato le due Giuditta.

Ho provato un’intensa emozione. C’era qualcosa, indubbiamente.

Il quadro francese era splendido, emanava una luce sinistra, autonoma, vitale. Di sicuro, non poteva essere un Finson. La copia attribuita davvero al fiammingo, che le stava accanto, era evidentemente di molte categorie inferiore, come può esserlo una grattachecca del chiosco sulla Pontina rispetto a una granita di mandorle a Siracusa.

Finson ne usciva distrutto, la sua è una misera versione in brutta della Tolosa. Ma, soprattutto, la Giuditta francese sembrava non essere affatto una copia, sembrava dotata di energia propria, di dignità e intensità autonome. Mi aveva sorpreso, quasi rapito. Una versione dark della mia amata Coppi.

Sono uscito che già era buio, molto turbato.

Perché? -mi chiedevo- Cos’è che non torna?

Caravaggio, d’altronde, poteva ben aver fatto quel quadro. Era scosso, angosciato e deluso. Temeva per sé -lo dimostrano molti degli altri dipinti coevi- sempre di più, fino al tragico epilogo. Il Nulla che avanza, come nella Storia Infinita, mangiava il suo cuore e avrebbe potuto fargli pensare una Giuditta così. Forse.

Giuditta…

Un battito accelerato, un lampo, un baleno di luce. Ho capito.

Sono tornato ancora una volta, la terza. Di corsa, senza passare per altre inutili sale.

Era lì, quella donna; era lì che mi aspettava. Sapeva anche lei che avevo scoperto l’arcano.

Ho capito perché io amo la prima Giuditta di un amore carnale, che torce le viscere.

L’autore della Tolosa ha dipinto davvero il personaggio biblico, una Giuditta qualsiasi, astratta, come lui immaginava che fosse, copiando alla meglio dal quadro originale.

L’ha dipinta bene, con enorme talento, tanto da oscurare il pur bravo Finson. I chiari e gli scuri parlano di una vita complessa, raccontano una storia piena di fascino e peso. La luce sa attraversare la scena senza appiattirla, ritaglia gli spigoli dei volti e i margini delle stoffe, il buio sa inghiottire e uccidere, il colore sa far rinascere. Il dramma funziona e chiunque può applaudire quella creazione senza sentirsi un idiota.

Ma a nessuno, neanche a un idiota, può fregare un accidente di chi fosse Giuditta, e men che mai a me. E perché invece quella giovane donna della Coppi calamita così tanto interesse, suscita così intensa emozione?

Ma è ovvio: perché non è davvero Giuditta.

Per Caravaggio la storia sacra, l’agiografia, la tradizione religiosa e l’aneddotica di Nuovo e Vecchio Testamento sono pretesti, contenitori formali, indispensabili veicoli per trasportare su tela l’unico vero universo che lo interessa davvero: quello delle passioni terrene e dei sentimenti dei semplici, della fede autentica, delle ipocrisie necessarie per vivere, delle debolezze che portano a soccombere, della precarietà, della finitezza, della complessità, di quel paradosso incarnato che sono gli esseri umani.

Dell’amore. Sì, dell’amore.

So che può suonare strano questo concetto, declinato nella vita di un uomo che mai si è fermato, mai ha legato a sé una donna, mai è rimasto a costruire, ma sempre si è mosso per distruggere tutto, compreso se stesso. Tuttavia, nessuno può convincermi che non abbia amato anche lui e amato per di più con quella forza mostruosa che troviamo nelle sue opere.

Ha amato Fillide, ad esempio. Fillide Melandroni, una ragazza di strada. L’ha amata davvero, di un amore tenero e travolgente.

Intenso, sofferto, possessivo. Furioso come quello di Orlando, ma vero, non di carta o poesia. Piangeva, per lei. Gridava per lei. Lottava, per lei. Per lei, probabilmente, ha ucciso e per lei, dunque, si è distrutto la vita.

È lei la fanciulla della Coppi, non Giuditta.

È pensando a Fillide che Caravaggio ha avuto il coraggio di sentire che c’è luce in mezzo alla tenebra, perché luce era quel calore diffuso che aveva dentro, quando era con lei. E mentre guardava lei, sua modella, vestita come una vedova ebrea che compie il suo tragico dovere, Michelangelo amava anche la vita e la comprendeva, la riconosceva, ne sentiva in pieno il valore.

È quello che ha dipinto, è quello che voleva rappresentare, non una storia del Vecchio Testamento, coperta di polvere e sangue incrostato.

Quella percezione integrata di profondità era magari fugace, labile come un sussurro, perché il suo oggetto di culto era effimero, come precario era il rapporto con Fillide, ma è stato esattamente ciò che ha permesso di collocare tanta bellezza su tela.

E la stessa intuizione, cristallizzata per sempre su un quadro, è la magia che coglie l’osservatore moderno, attivando in lui il medesimo processo interiore.

In Giuditta e Oloferne, Caravaggio ha dipinto, forse senza nemmeno rendersene conto, il senso, la grandezza, la natura dell’amore umano, il suo per Fillide, quello di tutti noi per coloro che amiamo.

Nella Tolosa, invece, chiunque l’abbia dipinta ha narrato una bella e sanguinosa storia antica, di cui a nessuno importa più nulla.

Figura 1. Caravaggio, Giuditta e Oloferne (Coppi). Galleria Nazionale di Arte Antica, Roma.
Figura 2. Anonimo, Giuditta e Oloferne, Collezione Privata.
Figura 3. Louis Finson, Giuditta e Oloferne. Palazzo Zevallos-Stigliano, Napoli.