Michelangelo Merisi detto Caravaggio, 1571-1610
Sacra Famiglia con San Giovannino, Metropolitan Museum, New York
Ogni tanto il nostro tribolato Paese riesce a tornare per un attimo al centro del dibattito culturale del pianeta, dove si trovava stabilmente fino al XVI secolo. Una cosa del genere è accaduta nell’inverno del 2017, quando a Milano è stato organizzato un evento dal valore eccezionale, a cui naturalmente un pellegrino della Bellezza come me non poteva mancare.
Si tratta della straordinaria mostra ‘Dentro Caravaggio’, allestita da Rossella Vodret al Palazzo Reale.
Un gorgo di meraviglia concentrata in uno spazio relativamente ridotto che, se non fosse stato per gli orari di chiusura delle sale, avrebbe avuto il potere di trattenerti per sempre avvinto, tra colori, cornici, ombre, luci, teste mozzate, piedi infangati di popolani e donne di bellezza inaudita, che ancora fanno battere il cuore dopo quattro secoli.
Venti (dico, 20!) tra i più grandi capolavori del pittore milanese, circa un terzo dell’intero catalogo oggi esistente al mondo, riuniti e visibili tutti insieme per la prima volta, nel più significativo momento di studio della sua opera che mai si sia realizzato sul pianeta, dopo la mostra di Longhi del 1951. Per comprendere l’enormità della circostanza, basti pensare che la massima concentrazione mondiale di Caravaggio oggi disponibile nel medesimo luogo è la sala con sei pezzi alla Galleria Borghese di Roma.
Ma non è ovviamente solo una questione di numeri.
Nella straordinaria esposizione meneghina sono stati proposti capolavori che la gente normale ha incontrato solo nei sogni o sulle pagine di qualche bel catalogo illustrato. Ben quattro pezzi dagli Stati Uniti, dei quali tre è lecito ipotizzare che non molti di noi potranno vedere una seconda volta dal vivo: il San Giovannino di Kansas City, L’Estasi di San Francesco di Hartford, la Conversione di Maria Maddalena di Detroit. Ancora, altri pezzi bellissimi, da musei stranieri, come il San Girolamo di Monserrat e la Salomè con la testa del Battista della National Gallery.
Per tacere di diversi strepitosi e meno noti quadri italiani, come il sorprendente San Francesco in preghiera di Cremona, di recente definitivamente attribuito, e L’Incoronazione di spine di Vicenza.
Non poteva mancare il favoloso Ragazzo morso dal ramarro, della Fondazione Roberto Longhi di Firenze. E ancora i due capolavori napoletani, La Flagellazione di Capodimonte e Il martirio di Sant’Orsola di Palazzo Zevallos.
In prima fila, ad accogliere il visitatore, nientemeno che la Giuditta Coppi di Palazzo Barberini.
Per la prima volta nella storia, tutte le opere sono state sottoposte a scansione a luce radente, reflettografia infrarossa e radiografia, i cui esiti sono documentati minuziosamente al pubblico: di ogni quadro si apprezza la tecnica pittorica, la cronologia e la misura delle pennellate, la presenza di disegni o incisure-guida sottostanti.
Si capiscono i ripensamenti del pittore, si possono seguire passo passo la genesi del processo compositivo e la regia complessiva della produzione, si può intuire ogni attimo del percorso emotivo, ogni istante della crescita, ogni respiro trattenuto e ogni battito di ispirazione di quella irripetibile esperienza creativa che è stata la vita di Michelangelo Merisi.
Si vede come, a un certo punto di questo viaggio, sia cambiato profondamente il suo modo di dipingere, che poi altro non è che il modo di rappresentare attraverso metafore figurative il proprio mondo interiore, la propria visione della vita.
Ad un tratto, per Caravaggio dipingere ha cessato di essere la rappresentazione di figure attraverso il disegno e il colore ed è diventato la loro puntigliosa estrazione dall’ombra, attraverso la stesura di macchie di chiaro sulle compatte campiture scure dei fondali.
Solo le parti in luce dei suoi personaggi o degli oggetti venivano rappresentate: i restanti volumi, le zone in ombra, rimanevano immersi nella profondità indistinta del fondo di preparazione, di solito di color bruno o nero.
Seguendo il percorso espositivo, ho avuto l’impressione di leggere la stessa identica parabola nella vita del pittore, che a un certo punto ha cominciato ad infilare momenti di luce pura su una trapunta di tenebre fitte, come un manto di stelle punteggia una notte d’estate.
La tecnica pittorica come metafora della stessa vita.
E più nera diventava la notte, con il precipitare degli eventi dopo il 1606, più intensa era la luce delle stelle che il suo genio ogni tanto vi appuntava. Come a voler bruciare sempre più in fretta quella magmatica energia vitale che gli si agitava dentro, prima che la fine incombente lo fermasse.
C’è un quadro, tra tutti, che ha avuto il potere di commuovermi profondamente: la formidabile Sacra Famiglia del Metropolitan Museum di New York (Fig. 1).
Una pregevole scheda di Keith Christiansen (Keith Christiansen, Sacra Famiglia con San Giovannino, in Dentro Caravaggio, a cura di Rossella Vodret, Skyra, Milano 2017, pag. 106) che presiede il Comitato Scientifico della mostra, argomenta, per me in via definitiva, sulla autografia dell’opera, ancora messa in discussione da qualche autore mitteleuropeo fino ad anni recenti.
Non solo è certamente di Caravaggio, ma ci racconta molto di lui. È una delle sue opere più fragili, per quello che mostra del suo mondo emotivo, e in senso stretto, avendo subito molto gravi danni alla patina cromatica, in parte emendati dal restauro del 1998. Non si capiva nulla a guardarla sui cataloghi. Dal vivo invece c’è da restare stupefatti.
Maria è solo una bambina, veramente una vergine, di certo totalmente innocente. Le hanno spiegato qualcosa, non molto.
Come potrebbe capire?
Ha paura, è smarrita. Ha gli occhi sgranati e sul fondo si legge autentico sgomento, appena velato di malinconia, che non basta a nasconderlo, come vorrebbe. Dico, è un dipinto, non una foto. Ci rendiamo conto? È fatto con un pennello… Chi mai ha più saputo rendere così uno sguardo di fanciulla? Chi avrebbe mai potuto raggiungere, con quattro tratti di colore, una sintesi così perfetta della nostra vicenda di umani, del nostro sbigottimento di fronte al mistero?
Il suo bimbo le stringe le braccia al collo, appoggiando dolcemente guancia su guancia; vuole sua madre, la sua pelle, il suo odore: non sa nulla di croci, sepolcri, corone di spine.
Nulla.
Respinge con un’occhiata diffidente il San Giovannino che esce dall’ombra e vuole toccarlo, vuole palpare questa carne di dio fatto uomo. O forse vuole solo giocare. Ma Gesù è perplesso, quasi infastidito: “Che cosa pretende questo da me?”.
Giuseppe, più indietro, è un vecchio falegname logoro e stanco, che appoggia la mano callosa a un bastone. Capisce forse meno degli altri, ma ha inchiodato sull’anima onesta, come un corpo su una croce di legno, il compito che gli è stato affidato senza spiegare, e che lui si assume senza discutere. Con gesto meccanico, guardando in basso per stanchezza e sconforto, ferma la mano del piccolo importuno.
“Non si può– sembra dire- lascialo stare. Ma non chiedermi perché”.
Una catena di mani in movimento definisce il respiro circolare di questo incredibile gruppo umano. Le spesse dita di Giuseppe stringono il polso di Giovanni, che arriva con l’indice a toccare Gesù. Tre dita di Maria stringono a sé il figlio. Una ghirlanda di piccole braccia, saldata sulla spalla sinistra da due manine legate a fermaglio, cinge il collo della Vergine. La mano sinistra di Maria poggia sulla soglia di marmo, quasi a cercare un punto di equilibrio. La mano destra di Giovannino chiude il ciclo, che riparte in eterno.
I due al centro del vortice, uniti dall’amore più grande, resistono aggrappati ad un cono di luce: una zattera di volti accostati e legati tra loro, perduta nel mezzo di un mare di tenebra.
