
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
(L’infinito)
C’è una vita segreta nelle parole, una personalità autonoma e libera, che molto spesso va oltre le nostre intenzioni e l’uso che ne vorremmo fare. A volte, le parole si servono di noi, lasciandoci l’illusione che siamo noi a servirci di loro. Le parole non nascono a caso, non sono create in laboratorio da scienziati della lingua. Escono dalle cose, come farfalle dal bozzolo, nell’attimo esatto in cui ciò deve accadere, e volano subito di bocca in bocca, di epoca in epoca, cambiando colore a ogni passaggio.
Parola è quel suono che coglie l’essenza della vita, che ogni occhio intuisce e prova a spiegare al vicino, a modo suo, secondo la propria visione. Finché non trova la tinta che sostiene lo sguardo di tutti e racconta fino all’ultima goccia l’anima liquida di quel fenomeno, di quell’oggetto, di quella vibrazione emotiva. Ci sono tante parole, una per ogni pensiero. Ogni volta che sorge un nuovo pensiero, nascono le parole a raccontarlo. In un certo senso, le parole sono la storia cantata della nostra mente, da quando esiste, da quando ha visto la luce nella notte dei tempi, gemmando dalla mente di qualcosa che non eravamo noi.
Alcune possiedono forza e bellezza naturali: sono parole sintoniche, a loro agio nel ritmo complessivo delle stagioni sulla terra. Non hanno bisogno di nulla, vivono ancor prima di essere dette. Frammenti di universo in libera uscita sotto forma di onde sonore, carezze soffiate nel timpano umano, ad evocare armonia, sollievo, identità. Sono piccole benefattrici in viaggio, testimoni della musicalità intrinseca della vita, che, a volte, si nasconde in angoli remoti delle giornate più buie e fatica ad uscire. L’aria vibra percossa da una laringe contratta, il suono si propaga, rimbalza su membrane elastiche che la riducono a un piccolo segnale elettrico, cariche in corsa tra cellule dalle lunghe code intrecciate, come lucertole congiunte in un amplesso, fin su, sempre più su e dentro, nel cuore di quella misteriosa materia grigia che ci collega all’eternità.
Le parole conoscono i misteriosi meccanismi del superindividuo, possiedono la magia dell’unità che genera forza. Insieme cambiano, diventano altro, qualcosa di molto più grande e potente delle singole unità che lo compongono. I frammenti di senso di ognuna, affiancati e legati, compongono mosaici grandiosi in cui il tutto abbraccia ogni parte. Le parole si innestano, interagiscono, si agitano copulando fra loro, con esiti drammatici e sublimi, a seconda dei casi.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”, ad esempio, è un verso molto famoso, un insieme composto da sette note accostate l’una all’altra con un’idea precisa. Sono parole banali e bruttine, prese una per una, ma legate tra loro formano un innesco, una miccia che bruciando in semplicità lineare, guida il pensiero e i sensi verso l’immenso che segue. E infatti, appena dopo sopraggiunge dell’altro: “…e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude… “. Tredici frammenti incatenati tra loro nell’arco di due versi; parole ordinarie, ma con un paio di eccezioni… c’è “orizzonte”, un vocabolo modesto, che però si distingue a modo suo, proprio perché nella sua assoluta semplicità tiene sulle spalle- con umiltà- il peso immane di uno spazio sconfinato.
“Orizzonte” è un paradosso, una parola che si fatica a scrivere e persino a pensare (ma qui “fatica” è una scelta mediocre, perché si tratta di uno sforzo senza stress, più simile a una liberazione sfrenata del pensiero e dello sguardo, a un decollo impaziente e imperioso verso i confini della libertà). “Orizzonte” è un preludio modesto ma fenomenale, in questo secondo respiro di sensi che spinge l’occhio più avanti, verso il seguito del viaggio. “Orizzonte” scricchiola nella sua inadeguatezza intrinseca, ma non cede: stimola a passare oltre, per evitare lo schianto e affrontare quell’immenso, proposto con ardire al limite del temerario. E più oltre c’è “guardo”. Cos’è un guardo? Niente, nulla, un aborto, un corpo a cui è stata recisa la testa. Ma no, non è vero. “Guardo” è tutto.
È una parola eroica, cruciale, di vastità inumana. “Guardo” mutila se stessa per nutrire le compagne di verso con il nettare caldo che schizza dalla sua ferita. A “Sguardo” si sarebbe dovuto appoggiare il piombo di un “Lo” e subito il fragile vascello del componimento, appena affidato alla corrente, sarebbe colato a picco in un abisso oscuro. Molto più agile un “il”, che non ferma l’accento e sospinge la vela del verso fuori dal porto, come una fresca brezza di mare. Il piccolo articolo affilato mutila impietoso la S che segue. La S sibilante di “sguardo” fischierebbe oscenamente nelle nostre orecchie, come la lingua di un serpente, in risonanza sinistra con la gemella della parola seguente, “esclude”, che invece lega di musica dentale e terrigna una catena di d, àncora formidabile per la barchetta traballante. Il guardo esclude. Un suono perfetto, che ha il pregio del senso, una gemma di sincronia e musicalità che supera la modestia individuale delle singole scelte, grazie al sacrificio capitale di una di esse, una esse (eh sì, con le parole si può anche giocare).
Ecco dunque che il sipario si sfila e un pugno di attori si appresta a compiere una solenne entrata in scena. Prima, però, il protagonista si affaccia, introduce, presenta. “Ma”… Due sole lettere, una sillaba. Può un simile microbo contenere senza sforzo la storia dell’intero pensiero umano? Sì, se usato a dovere. Come l’atomo può fare la bomba. Qui, come un giovane granchio in muta, “ma” abbandona il suo esoscheletro da congiunzione, per diventare qualcosa di molto più grande, un estratto, un distillato assoluto. Ciò che lo precede è vaghezza, inquietudine indefinita, precarietà e dubbio. Parole mediocri, direzione incerta. La mente rischia la noia, sinonimo di agonia e rinuncia. Una puntura fastidiosa la risveglia, perché “il guardo esclude” è una sfida, un guanto sbattuto sulla faccia. E appena il torpore ci abbandona, ecco un boato che scuote la scena, rimbombando nei recessi oscuri come un colpo di tamburo che dà il segnale all’orchestra… “Ma”. E parte la musica… “Mirando… interminati… quiete… mi fingo…spaura…”. Da questo istante monta un assoluto crescendo, fatto di vette e piccole valli, fino ad altezze mai raggiunte. Manca l’aria lassù e ci si arriva in un attimo, senza capire, senza sapere come. Il ritmo di bellezza (“stormir… sovvien… immensità…”) è parossistico e fatale perché conduce al dissolvimento felice in un infinito in cui si mischiano cielo e mare, senza che si percepisca il confine tra di essi. Le parole, sapientemente miscelate, perdono individualità, fondono le loro differenti nature per contribuire a uno scopo comune, altrimenti impossibile. La vera entità della vita non è in una sola di esse: ma il tessuto di alcune parole intrecciate può però riflettere questa luce, invisibile ai più. Ecco come, in uno degli infiniti esempi possibili, le parole possono estrarre succhi di senso dalla polpa della vita. I fenomeni hanno un significato loro, che però non è il nostro, non è quello che vediamo. Il nostro senso, quello che comprende anche noi e ci integra con tutto il resto intorno, glielo diamo con le parole, che generano il pensiero in un circuito di reciprocità senza fine. Le parole chiamano per nome e definiscono, perciò sanno evocare, perché alla chiamata corrisponde una risposta. Le parole, quelle giuste, generano la vita, sconfiggono la disperazione, aprono infiniti orizzonti.
Nel buio della notte fredda, seduti sui flutti induriti di antiche colate, sulle pendici desolate del Vulcano, possiamo vedere fiammeggiare le stelle nel purissimo azzurro del cielo, e di lontano far loro da specchio il mare e brillar di scintille il vuoto sereno del mondo. Quando lasciamo vagare il pensiero tra quegli infiniti nodi celesti, che a noi sembrano appena stille di lattea fuliggine e invece sono sterminate galassie perdute nell’infinito, come non avvertire l’irrilevanza, non solo della nostra piccola vita, ma addirittura dell’intero pianeta, minuscolo granello sospeso nel nulla, al cospetto di tale imponderabile immensità? Come non perdersi, ritenersi vinti, annegare nell’impotenza e nella rassegnazione? Eppure, nel silenzio di quelle notti, che soverchia ogni pensiero, una voce da sempre e per sempre si leva, flebile, delicata, persistente. Un canto vibrante fende l’oscurità, si fa strada tra mille tortuosi e aerei sentieri. È il dolce, soavissimo profumo di un umile arbusto, l’odorosa ginestra, che proprio quelle lande infeconde colonizza, pervicace, indomita, ispirata e le colora dei suoi fiori giallini.
Quella tenue scia di emozione olfattiva può apparire un ben modesto controcanto alla forza distruttrice del vulcano, che prima o poi seppellirà la pianta che l’ha prodotta sotto un flutto di roccia incandescente. Non è così. Quella voce, sottile ma ferma, dà senso al tutto. È la parola. Il logos, che nello scambio fecondo diventa dia-logos. La poesia, il suono, il colore, la bellezza del ponte tra umani. Quel canto ispira a stringersi in amore solidale, ad affrontare il terrore della propria finitezza e della propria inesorabile precarietà. È il raggio di sole che legittima le tenebre, come l’aurora dalle dita rosate aiuta ad accettare la notte. Se un umile ginestra può continuare, generazione dopo generazione, a spandere il suo profumo tra pietre desolate e orridi crepacci e il canto della vita può essere ascoltato, recitato, trasmesso, per lenire ogni ferita, allora l’Universo infinito non è così inospitale.
Allora quell’immensità in cui si annega non è che un oceano di cui noi stessi siamo gocce, partecipi molecole di una Bellezza senza inizio e senza fine. Noi stessi note di quella melodia, che ha bisogno anche di noi. A ogni pausa di terrificante silenzio, si può tendere l’orecchio e quel canto percepirlo di nuovo, provenire da dentro. Ogni volta che cadiamo, quel canto incoraggia a rialzarsi e a contribuire con la propria voce.
Canti, Giacomo Leopardi, ET Classici