Michelangelo Merisi detto Caravaggio, 1571-1610
Giuditta e Oloferne, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma
Raffaello Sanzio, 1483-1520
La Fornarina, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma
In una piazza del centro di Roma, che prende il nome dalla famiglia Barberini, gente antica e famosa per aver ha dato al mondo papi, cardinali, mecenati e prepotenti sanguinari di nobile lignaggio, campeggia, quasi inosservata dalle migliaia di frettolosi passanti, una stupenda fontana opera di uno dei più grandi scultori della storia che, per fortuna dell’umanità intera, ha lavorato assai su commissione di quella famiglia, per quasi un secolo, nella nostra città. Non m’importa che nessuno la guardi. Anzi, è meglio. La sento tutta per me. Lei d’altronde lo sa, riconosce le mie avide occhiate, sono anni che ci è abituata. Si schermisce un poco ma poi ricambia il mio interesse, lo capisco dagli sbuffi di acqua che lancia come sospiri di innamorata, quando mi vede apparire.
Poco oltre si nota, in secondo piano, come una quinta severa che incombe sulla piazza, il profilo austero di un palazzo in travertino. È un grande signore serioso, il vero padrone di quel quadrante di città, la dimora superba della potente famiglia di cui si diceva; veste un abito elegante, tessuto dal sarto del tempo con i suoi scampoli migliori: linee morbide del primo Rinascimento, forme lussuose del più maturo ‘500, dettagli e accessori del fantastico Barocco. Praticamente un catalogo di storia a cielo aperto, con le sue pagine patinate bagnate dalla pioggia e sferzate dal vento di Roma da almeno 500 anni.
È lì che mi dirigo. L’accesso è libero, si entra dalla Via Barberini, manco a dirlo. Basta svoltare un angolo.
Trentadue minuti esatti dopo aver lasciato il portone di casa mia, mi affaccio da una soglia incantata.
Un cortile ordinato, un vascone cinquecentesco, sparuti gruppi di turisti interdetti dalla facilità con cui questa città ti pone davanti alla meraviglia, dalla noncuranza provocante di meretrice con cui l’Urbe ostenta le sue grazie.
Supero lo spazio aperto antistante e arrivo al grande portone, non senza sentirmi osservato. Dall’alto di questa facciata cinque secoli mi guardano? Può darsi. Ma forse è solo emozione per quanto so che sta per accadere.
Mi lascio a destra un maestoso scalone, a gradini bassi e profondi, progettato -che sorpresa- ancora dal maestro Bernini, di cui altrove si venerano come reliquie di un santo finanche modesti sassetti, soprammobili, impronte lasciate nel fango. Qui invece ne ignoriamo con noncuranza interi edifici. Normale, siamo a casa sua.
Procedo e varco una prima porta. M’imbatto ex abrupto in un Muziano a parete: San Matteo e l’Angelo. Comincia il viaggio, ma già entro in dispnea. Mi fermo subito, appena iniziato. Il titolo e il soggetto suscitano in me immediato cardiopalmo; assomiglio di più a un cane di Pavlov che a un essere umano in gita di piacere.
Salivo. Non l’imperfetto di salire, ma il presente di salivare.
Osservo il quadro. Non è un quadro. È un ponte gettato tra due michelangeli. Come a dire tra i due bastioni di marmo della civiltà figurativa occidentale.
Panneggi, colori, fisicità del santo e dell’angelo, giochi di luce e solennità, richiamano il Buonarroti. E il mantello rosa che lo attraversa, benché di fattura indicibilmente men fine, riporta sulla retina la memoria dei pepli sgargianti del Tondo Doni (Fig. 1).
Buonarroti e l’Uomo-monumento dell’universo, l’Uomo supremo, centrale, gigante, maestoso. Buonarroti il mio amato, che fa godere ogni uomo del fatto di esserlo.
Quel santo calvo e barbuto, però, che scrive il dettato di un angelo… Dio santo. Mi sento scoppiare. Come faccio a non pensare a un altro Michelangelo, il Merisi, quello del San Matteo e l’angelo per la cappella Contarelli, prima versione rifiutata e oggi perduta (Fig. 2)?
L’altro bastione, col fiume nel mezzo. Un mare, altro che fiume.
Caravaggio è un moderno.
I due non distano solo i 7 anni dalla morte del primo alla nascita del secondo. C’è un’eternità tra loro, perché Caravaggio ti è accanto, ti prende la mano, ti porta a sfiorare la superficie increspata dell’anima, tra il freddo del dolore e della morte, della perversione, della sofferenza e il caldo della luce che arriva, prima o poi, da dove non ti aspetti, una luce che giunge per te, ovunque ti trovi, anche nel fango, anche in una galera buia ad attendere il boia.
Michelangelo è un padre, un maestro, lontano nel tempo, intento a scolpire nel marmo, più che a dipingere, un dito che indica la via.
Caravaggio fa la strada fa insieme a te, è un fratello, anima fragile e immensa che si congeda perché non resiste, ma ti nomina erede.
Erede.
Muziano combina uno scherzo: dipinge un anello che unisce, un ponte tra i due giganti. Mi sento un paleontologo che trova il fossile intermedio tra due specie di Homo. Ringrazio commosso: c’è da imparare; ma non indugio di più, perché adesso si è accesa la smania di assoluto. Voglio emozioni forti, è per questo che oggi son qui, diamine. Avessi aspirato a un pomeriggio tranquillo, sarei rimasto a casa a leggere Tex Willer. Ho quasi timore ad attraversare le sale. Difficile tenere il controllo, è tutto un subbuglio, è fretta, è paura, trepidazione. È fame, è sete, fregola erotica, deliquio, ossessione. Un calmante, ci vuole un calmante.
Ecco, perfetto: la sala di immagini sacre di fine Trecento. Non è questo che cerco, ma almeno mi placo. Riprendo il controllo. Però non manca molto: due passi più in là comincia la festa.
Non posso sapere in quale sala Lei si trovi, quindi mi muovo guardingo. Varco una porta. Avverto subito una vibrazione nella Forza, una presenza alla mia destra: o è un Jedi, oppure ci siamo. D’un tratto provo inspiegabile imbarazzo, mi sento arrossire. Chissà, penso, anche Lei mi avrà visto? Oddio, che figura, mi sono vestito da idiota…
Aspetto venti, trenta secondi. Poi alzo lentamente lo sguardo. Lo so che non è un quadro quello che mi attende su quella parete, ma una finestra aperta su un gorgo emozionale. Infatti puntualmente è così. Il ritratto, pochi centimetri di tela in cornice, mi vede e incrociamo gli sguardi: ecco che sono investito da un fascio di luce chiara, di cui non ravviso la fonte. Un laser? Un lucernario? Il Faro di Genova? Nossignore, non viene da fuori, viene dal quadro. Forse.
Il viso di una giovane donna (Fig. 3), il suo busto semi svestito, rimandano un chiarore morbido, come di vetro lattiginoso. La pelle è candida e lucida. L’ovale perfetto. Le labbra piegate in una posa languida, mascherata, trattenuta per fierezza, educazione, fedeltà. Occhi scurissimi, curiosi, parlano di orgoglio e dignità. L’orgoglio di una donna che guarda un Genio affannarsi alla tela per farle un ritratto immortale, presumo. L’orgoglio di essere amata da chi conosce la Bellezza del mondo come nessun altro. E soprattutto la sa riprodurre. La dignità di una modella che sa che la bellezza che vede il Maestro non è solo nei propri occhi scuri e vivaci ma anche nell’anima, nel corpo, nel profondo della vita.
La figura emana una forza sensuale straordinaria, quasi sovrannaturale. La bellezza, davanti a Raffaello Sanzio, diventa un’energia in transito tra corpo e corpo, come il calore. E come per il calore, nel transito si può misurare, basta avere il termometro dentro, negli occhi, in gola, nel cuore. Se ridi, se piangi, se senti pesare il respiro, se resti come un babbeo, ecco, vuol dire che hai preso la febbre, la febbre di quella bellezza.
Ti ammali di Raffaello e vai in ipertermia.
In testa, la giovane ha un telo prezioso, avvolto a turbante. Una firma, come gli altri infiniti dettagli, il piccolo anello nella falange distale del dito anulare, la fascetta omerale col nome dell’amante Maestro e creatore. Tu sia benedetta, Margherita Luti detta Fornarina, perché di questo male che mi stai provocando non si muore. È un male che fa bene. La luce che riflette il tuo viso, è una luce ideale, ma non fredda, perché non è un’invenzione.
Ognuno di noi, in fondo, può ricordare ciò che ha sempre saputo: la natura umana, la forza che muove la vita, è impastata di luce policroma. Solo rarissimi occhi sanno vedere l’intero suo spettro e ancora più rare mani sanno plasmare la grezza materia per farla vedere e adorare da tutti. L’Urbinate aveva quegli occhi e quelle mani e li ha usati come sapeva.
Un miracolo, un dono, un tesoro.
Indietreggio, distolgo lo sguardo, mi placo. Ho ottenuto quel che cercavo, ho avuto quel che volevo.
Sicuro?
Naturalmente no. Non è proprio così. Lo so bene. Sono qui per un viaggio che non è ancora finito. Mi serviva passare da qui, come espediente. Dovevo sentire che quella luce c’è, esiste, dovevo rammentarlo a me stesso, vederla irradiarsi, riconoscerla, annotarne la forza e il calore. Avevo bisogno del tempo necessario a capire che viene proprio da dentro, da me, non dal quadro. Che il quadro è lo specchio, l’enzima che catalizza, per non dubitare, nel momento che so che mi aspetta, per non tremare, per non disperare e sentirmi sconfitto. Quando vedrò l’impasto dorato macchiarsi di fango e di sangue, disperdersi, spezzare le forme e mostrare le ombre, come è giusto che sia, non dovrò aver paura che la luce assoluta non esista, non dovrò credere alla suggestione che i nemici interiori sussurrano: “…è una favola, l’hai sognata, il dramma è padrone da solo, non c’è via d’uscita…”.
Non tremerò, perché ormai ho bevuto l’antidoto.
Infatti mi sento pronto, ed esco dalla sala. Salgo lo scalone berniniano, attraverso la galleria con trepidazione crescente.
È lassù, mi dicono, e infatti lo trovo, in una sala esclusiva e appartata. Ovviamente, mi sento di dire: Caravaggio è un’esperienza esclusiva, non può sopportare vicinanze, contiguità.
Spazza via, sfuma, disinnesca e svuota di senso qualsiasi proposta o suggestione gli si accosti. Nulla regge il confronto, nulla è così assoluto e definitivo.
Occupa una parete intera: mi domando come un semplice muro possa sorreggere quel peso, il peso dell’intera umanità. Ma è una domanda da scemo; prendo un respiro profondo e mi accomodo sul divanetto, proprio di fronte.
Sono calmo.
Giuditta e Oloferne (Fig. 4) è un quadro moderno, non secentesco.
Come la Maddalena pentita, come il Riposo dopo la fuga in Egitto, come il Seppellimento di Santa Lucia, come la Decollazione del Battista. Ma forse di più di tutti questi capolavori, persino più della Canestra di frutta, che sta all’Ambrosiana e rivali non ha.
Di più perché è stato scoperto, riscoperto, solo da poco più di 60 anni. Solo dal 1951 è tornato ad emozionare la gente.
Prima di allora attendeva il suo turno nel buio di una collezione privata: aspettava il momento per squarciare il silenzio con il suo grido.
Prima del secolo XX non eravamo pronti, non potevamo capire. E infatti non capivamo. Caravaggio, per noi comuni mortali, estranei alle elucubrazioni degli addetti ai lavori, non esisteva. Era un minore, un incidente bizzarro della pittura. Meglio Guido Reni, meglio Annibale Carracci.
Non potevamo capire, perché non eravamo pronti a sopportare il peso dell’ombra, a tollerare l’impasto della luce con il lato più oscuro della vita.
O l’una, o l’altra.
Oppure, al massimo, cenni di una nell’altra, ma separate, distinguibili, come facce diverse della stessa medaglia, di cui si può vedere, alternativamente, ognuna. Separate anche se unite, come il dorso e il palmo di una mano, che coesistono, certo, anche con zone di frontiera tra loro, ma ben discriminabili.
Ecco, il discrimine sembrava necessario, per non impazzire. Qui nero, qui bianco. Nature diverse, che possiamo evocare, gestire.
Non eravamo pronti a capire che luce e ombra sono esattamente la stessa cosa e ogni distinzione è una pura illusione, una necessità di elementare semplificazione che spesso distoglie, che fuorvia. La stessa illusione che spegne i nostri occhi, che muove il pensiero verso la sconfitta, la rassegnazione, la disperazione. La stessa illusione che fa bruciare sul rogo libri e rivoluzionari, che censura le idee e distrugge i diversi.
Avevamo bisogno di un travaglio lungo quattro secoli per capire ciò che Caravaggio aveva per sempre immortalato su tela. Avevamo bisogno, anche, purtroppo, del Novecento e delle sue tragedie, di cadere e guardare negli occhi l’abisso dell’abiezione umana.
Michelangelo Merisi sapeva che il Buonarroti aveva scolpito l’universo interiore in modo immortale, ma parziale, non definitivo.
Sapeva che Raffaello aveva mostrato la luce come nessuno, ma solo la luce.
C’era spazio per una sintesi più estrema, più vera e profonda. Una sintesi assoluta. Giuditta e Oloferne racconta questa storia, e molte altre ancora, storie di interpreti e ruoli, di cinema, di teatro, di complessità progressive, di profondità insondabili.
Racconta di un uomo, del suo tempo, del suo modo di vedere il passato e di preconizzare il futuro. Racconta di tutti gli uomini, di un conflitto interiore tremendo, che genera paura, del dubbio che disarticola il pensiero e sconquassa, che insidia ogni virtù, inquina ogni certezza. Racconta della luce che sgorga a illuminare quel dubbio, a scaldare e a far rinascere la speranza, anzi a ripescare in un torbido pantano, a una a una, tutte quelle certezze perdute.
Racconta di come l’ombra dia dignità alla vita al pari della luce, di come l’una non può esistere senza l’altra, di come la malattia sia battito di cuore e vita al pari della salute, di come la paura sia una declinazione del coraggio e la rinascita presuma una caduta.
Racconta di come una testa mozzata da una fanciulla coraggiosa ma inorridita è materia infinitamente più rassicurante e profondamente più umana di un semplice ritratto di signora.
Racconta di come un uomo che comprende tutto questo, per primo, con intuizione così straordinaria, possa anche non farcela a sopportarne il peso, se manca degli strumenti adeguati per manifestare dentro di sé quella luce. Può restare sconfitto, certo, e morire solo, su una spiaggia toscana. Può essere dimenticato per secoli, ma non per questo essere meno gigantesco.
Sono rimasto un poco a guardare il quadro, un altro po’ a guardarmi dentro. Felice. Ho pregato un istante per lui, con vera gratitudine. Poi sono uscito al sole. Andate a Palazzo Barberini.



