Atalanta, una madre

Atalanta, una madre

Raffaello Sanzio, 1483-1520

Trasporto del Cristo morto (Pala Baglioni), Galleria Borghese, Roma

Vado spesso alla Galleria Borghese, ma non mi fermo mai alle sale iniziali. Salgo veloce al piano superiore, per due motivi. Intanto, così sfuggo alla bolgia che sosta per i tristi autoscatti con i gruppi del Bernini. E poi perché lassù, nella prima sala ancora deserta, mi attende la mia personale intervista alla Bellezza, che riesce diversa ogni volta che vado. Mi siedo su un divanetto e guardo la Pala Baglioni di Raffaello, un quadro del 1507, commissionato al giovane urbinate da Atalanta Baglioni (Fig. 1).

Conoscete la sua storia? Ho voglia di raccontarvela io.

Atalanta era una giovane donna della nobile famiglia dei Baglioni, che dominava la città di Perugia nell’ultimo quarto del XV secolo. Andò in sposa a Grifone Baglioni, suo cugino, figlio legittimo del patriarca Braccio I. Altri cugini, però, figli dei fratelli di Braccio, assassinarono il giovane Grifone per impadronirsi del potere, lasciando Atalanta sola e in attesa del primo figlio. Così andavano le cose a quel tempo nel mondo, e Perugia non faceva certo eccezione.

Fin da quando venne alla luce, il giovane erede di Grifone, chiamato da tutti Grifonetto, visse sotto la minaccia terribile dei cugini, che lo consideravano una possibile insidia al loro dominio e ne temevano la vendetta. Grifonetto era bello, come si dice fosse il padre, e assai valoroso. Tutti lo rispettavano e vedevano in lui il degno successore di Grifone alla guida della città.

Atalanta poteva essere fiera del suo lavoro di madre: io credo, ma è solo un mio personale pensiero, che questa donna coraggiosa volesse infrangere la catena delle violenze e del sangue, che tanto aveva fatto male a Perugia, alla gente e a lei stessa, e per questo riponesse ogni speranza nel valore del figlio.

Atalanta aveva fede nella pace, nella virtù e nella giustizia e per questi valori sapeva che bisognava combattere, prima di tutto con se stessi. Chi domina se stesso non ha il bisogno di dominare gli altri. Il perdono era il principio su cui fondare la rinascita; fiducia, accoglienza e amore avrebbero fatto il resto. A questo educò Grifonetto.

Nell’estate del 1500 Perugia si dispose a mostrare al mondo come si poteva fondare la pace. Atalanta volle organizzare una grande celebrazione in occasione delle nozze tra il giovane Astorre Baglioni, cugino di Grifonetto, e Lavinia Colonna, una deliziosa fanciulla della nobiltà romana. Tutti dovevano vedere come i Baglioni fossero uniti, come le antiche rivalità fossero spente per sempre e la città si stesse avviando a un’epoca d’oro di pace e prosperità. Archi trionfali di fiori e frutta fresca furono disposti in tutta la città, ad accogliere il corteo trionfale degli sposi, dolci e vivande vennero distribuite alla folla adorante. Le feste, i balli, i banchetti durarono per giorni, dal 28 giugno, fino alla fatale notte del 15 luglio 1500.

Era sola, però, Atalanta: una donna sola, benché gigantesca, in un mondo in cui parlavano invidia e violenza, in cui la sua gentilezza era sovrastata dalla voce più sordida e roca degli istinti bestiali. Una donna sola, benché integra fino al profondo dell’anima, in un mondo dominato da uomini turpi.

Uno di questi, il tremendo Carlo Baglioni detto Barciglia, roso dal rancore per il ramo rivale della famiglia, covò il suo orribile piano. Il fango mefitico di un’anima nera può distruggere in un istante il frutto di una vita di semina paziente.

Barciglia soffiò le sue velenose parole di odio nelle orecchie di Grifonetto, nel cui animo, evidentemente, il raccolto della semina materna non era ancora maturo. Forse Atalanta non aveva terminato il lavoro, o forse, più semplicemente, l’oscurità fondamentale della vita, se non contenuta da solidi argini, può d’improvviso gonfiarsi all’appello del male. Sta di fatto che la tragedia irruppe come una nera onda devastatrice su quella gente festosa. E travolse anche il ragazzo. Barciglia convinse alcuni Baglioni alla congiura e nella notte fatale, a tradimento, nel buio, un manipolo di truci sanguinari, sgozzò uno ad uno i cugini rivali, Astorre incluso, sorpreso inerme nel letto nuziale. Grifonetto era con loro, quando Filippo Baglioni estrasse dal petto di Astorre il cuore ancora palpitante e gettò il corpo dalla finestra, sul selciato, che al mattino si mostrò lordato del sangue di molti innocenti.

Atalanta capì in un istante che aveva fallito e quanto tremendo fosse il prezzo della sconfitta, ma ad essa, alla disfatta più atroce, non concesse un’oncia della sua straordinaria anima. Comprese, prima ancora che accadesse davvero, di aver perso per sempre suo figlio, ma non cercò compromessi, perché la vita di lui valeva di certo non più di quella di tanti innocenti. Chiamò a se Zenobia, la giovane nuora, e i suoi quattro figli; chiamò le donne, gli anziani, i bambini, gli inermi incolpevoli testimoni di quella insensata brutalità e si barricò con loro nel suo palazzo fortificato. Non volle però concedere albergo a suo figlio, che disperato implorava battendo coi pugni sul massiccio portone; lo lasciò a pagare da solo per la colpa commessa, perché il sangue versato non ricadesse su chi invece non aveva macchia alcuna.

Non passò molto tempo e la città fu ripresa dai Baglioni superstiti, avidi di vendetta. Grifonetto, rimasto da solo, fu facile preda dei rivali, che lo colpirono a morte, lasciandolo spirare sul sagrato della cattedrale, in mezzo a una folla di curiosi. Si dice che Atalanta, disperata, accorse in tempo per raccoglierne le ultime parole: perdono per i suoi assassini, pur di ottenere, infine, il perdono di sua madre.

Questa è la storia.

La sua terrificante e sublime bellezza s’intravede solo in minuscola parte sotto la coltre delle parole che servono a raccontarla, simboli grafici che scendono lenti come fiocchi di neve sul cuore. L’anima di Atalanta, tuttavia, la sua umana grandezza, meritavano di più della semplice memoria, tramandata dai testimoni alle generazioni future. E di più, indubbiamente, come un parziale indennizzo ricevuto dalla storia per il suo terribile dolore e per la sua integrità, Atalanta ha ottenuto.

Viveva, all’epoca dei fatti, tra Perugia e Città di Castello, un giovane di efebiche fattezze, sublime in ogni suo gesto, che aveva ricevuto il dono di saper rappresentare la Grazia. Quell’istante fugace in cui la bellezza del mondo si mostra agli umani, nei momenti più cupi come in quelli felici, non sfuggiva al suo sguardo; restava impigliato in quegli occhi e scendeva verso la mano, per guidare il pennello nel gesto di riprodurlo. Già aveva dato ampia prova di questo prodigio che in lui viveva, a forza di capolavori straordinari. L’Assunzione della Vergine, dipinta a poco più di 20 anni per la famiglia Oddi, storica rivale dei Baglioni, campeggiava sull’altare della cappella privata, in San Francesco del Prato, a Perugia.

Atalanta voleva quella Grazia, voleva che il racconto del dramma del figlio e suo fosse per sempre intriso di profonda e accorata dolcezza. Per fare questo, al mondo non c’era che Raffaello Sanzio.

Nel 1507, quando lavorò al dipinto, Raffaello aveva 24 anni appena, ma il talento che abitava in lui non conosceva età. Si gettò furiosamente nell’impresa, come faceva sempre e sempre avrebbe fatto, per far scaturire dalle sue mani l’inno alla gioia della Bellezza, anche se quella che si era incaricato di lasciare ai posteri era la rappresentazione di un dramma. Un inno alla gioia in forme e colori, tre secoli prima che fosse scritto in musica.

Scelse il soggetto. Sacro, ovviamente. Il Trasporto del Cristo morto. Badate, non la Deposizione, ben più tradizionale. Il trasporto. Perché?

Forse perché nel trasporto c’è movimento e il movimento è verso qualcosa. Il movimento è proprio della vita, della speranza, non della morte e della disperazione, che sempre si ammantano del buio silenzioso della staticità. È un trasporto verso il sepolcro, certo. Ma quel sepolcro vuoto, in un giardino, è il luogo dove tutto è iniziato, non certo dove è finito il più autentico viaggio.

Il monte del Calvario, dove la vita si è spenta, è lontano, sullo sfondo, in alto a destra. Quella piccola croce lontana è come uno stiletto, che scende diritto verso il cuore della madre, svenuta, cerea, distrutta. Quella madre è Maria, quella madre è Atalanta.

Maria sapeva che il figlio sarebbe morto, come Atalanta. Sapeva anche, come lei, che era giusto che morisse, perché altri si salvassero. Ma tutto questo non allevia l’atroce sofferenza di averlo visto crudelmente privato del soffio vitale. Cade, Maria e, come Atalanta, ha una donna giovane e bella che la sorregge, in una torsione che cita apertamente, meravigliosamente, Michelangelo Buonarroti, il cui Tondo Raffaello aveva da poco ammirato in casa del facoltoso banchiere fiorentino, Agnolo Doni, che oggi gli dà il nome.

La donna che sorregge Maria ha bellezza e finezza, vesti e acconciatura di Zenobia Baglioni, vedova di Grifonetto, ed è lì, per sempre, a svolgere il suo compito, con eleganza ed energia, con sobrietà, coraggio, determinazione. Anche lei ha perso qualcuno, ha perso un pezzo di vita. Non cede, però. È nel giusto, si assume una responsabilità, guardando in faccia il dolore senza piegarsi. Il corpo inerme del Cristo traccia una delle due diagonali del quadro, verso il suo centro focale, la mano sinistra di lui, dolcemente sorretta da Maddalena, unica a poter davvero toccare quel corpo.

Il centro del quadro è questo sublime contatto di mani, mediato dal tenue intermezzo di un panno. La mano esanime e pallida di un giovane morto e quella rosea, delicata di Maddalena, che però si sfiorano appena, non possono toccarsi davvero. C’è qui un’idea di rispetto, di tragica dignità, che mi commuove nel profondo. Io non credo, però, che sia dedicata a Grifonetto. Il giovane campeggia in primo piano, scultoreo, col busto inarcato a sorreggere il peso del Cristo, riccioli al vento, lo sguardo fissato lontano. Triste, forse pentito; più che dare una mano, sembra opporre resistenza al trasporto del morto nel buio sepolcro, come se volesse, nel quadro, ritardare quel tetro momento in cui, nella realtà, è scivolato nel freddo dell’avello. Io credo che Raffaello abbia qui reso, invece, un omaggio ad Atalanta, alla sua figura di madre, di donna, di essere umano che non teme il dolore suo proprio pur di esimerne gli altri.

Quella mano sorretta su un piccolo panno è un segno di profondo e commovente rispetto.

Rispetto per chi dona la vita, innocente, per salvare i suoi amici; il rispetto che si deve alla bellezza, quella vera, la bellezza di Atalanta e di tutte le donne così, la bellezza che deve aver convinto Raffaello a impegnare se stesso e il suo dono per fare il lavoro. Può morire la Bellezza? No, dice Raffaello ad Atalanta. Il tuo gesto, segno di un’anima veramente grande, ti rende immortale. E le ferite del Cristo questo suggeriscono agli occhi turbati: ancora gettano sangue, a morte da tempo avvenuta. Impossibile. E allora, che accade?

Accade che già sta tornando la vita. Quel corpo si è spento, Atalanta, ma il senso di quello che hai fatto non morirà. Tutto si muove, Atalanta, ognuno ha una missione. La danza dei piedi incrociati, il giro di rossi intorno a quel corpo, la brezza leggera che muove i capelli di Maddalena, tutto rimanda al movimento, al ciclo ininterrotto, alla continuità, al senso delle cose. Alla speranza. Nulla è perduto, finché resiste il coraggio e la fede nella giustizia. In basso, a sinistra, quasi nascosto, un fiore soffione è pronto a lanciare nel vento i semi di nuove, piccole piante. Nel 1508, un dopo questa prova eccezionale, Raffaello, all’età di appena 25 anni, fu chiamato a Roma da Giulio II per affrescare le stanze dei suoi nuovi appartamenti nel palazzo Vaticano. Dalla Bellezza condivisa nasce altra sublime Bellezza, in un flusso che non si interrompe mai e il pensiero senza parole di Raffaello è ancora lì che incanta chi si ferma ad ascoltare.

Figura 1. Raffaello Sanzio, Trasporto del Cristo morto. Galleria Borghese, Roma.