Artemisia e il profumo della libertà

Artemisia Gentileschi, 1593-1656

Confesso di non essere un particolare cultore di Artemisia Gentileschi, pittrice. Non mi suscita nessun deliquio, nessuna smania. Le riconosco un ottimo talento, certo, ma non tale da farla preferire più di tanto ai molti contemporanei di fama con cui ha lavorato e si è confrontata, da Filippo Vitale a Louis Finson, da Giovanni Francesco Guerrieri a Simon Vouet, da Domenichino, a Battistello Caracciolo: una generazione formidabile di artisti vissuti tra la fine del ‘500 e i primi decenni del ‘600. Naturalmente state già pensando tutti che a questa tavola imbandita esiste un convitato di pietra. Un gigante nell’ombra, un nome da cui viene tratto il corrispondente aggettivo per accomunare tutti i pittori di questa generazione, che agirono e dipinsero in uno stile e con uno sguardo inventato non da loro, ma da Lui. E forse vi aspettate che questo nome io lo tiri fuori da un momento all’altro. Ma vi sbagliate. Quel nome io qui non lo farò, perché mi sembra irriverente.

Non avrebbe senso nemmeno soltanto abbozzare un paragone, pur se i riferimenti dell’ispirazione sono evidenti e scontati: la storia, dettaglio più, dettaglio meno, la conosciamo tutti.

E allora, Artemisia?

Resto convinto che se si fosse chiamata Artemio, se fosse nata uomo, avrebbe faticato a meritarsi la rinomanza di cui oggi gode e i palcoscenici privilegiati che le sono offerti, come le molte splendide mostre monografiche allestite in suo onore. Difficilmente si sarebbe distinta nettamente dal gruppo ben nutrito dei talentuosi pittori della sua epoca.

Artemisia, però, è nata donna, non uomo, ed è nata in una famiglia normale, di onesti artigiani, alla fine del secolo XVI.

Non si può non considerare questo dato di fatto. Artemisia nacque e visse in un tempo e in luogo in cui essere donna significava esclusione sistematica da ogni forma di realizzazione personale e da ogni attività sociale che non fosse funzionale agli interessi degli uomini. Salvo pochissime fortunate eccezioni. Significava anche avere necessità di protezione continua, alla stregua di un qualsiasi altro bene materiale oggetto della bramosia dei predatori. Un pesce indifeso in un mare infestato da squali. In mancanza di un marito, un padre, un signore, un protettore, nessuna donna poteva muoversi liberamente senza esporsi a un tremendo pericolo. E Artemisia sperimentò su di sé la cruda verità di questa legge, addirittura in casa sua, ad appena 18 anni. Non solo però la violenza subita non la distrusse, né la sottomise: non riuscì nemmeno a impedirle di proseguire per la strada che aveva intrapreso e di percorrerla fino in fondo.

Artemisia fu pittrice affermata, unica donna in un mondo di soli uomini; un mondo in cui le donne in pittura comparivano come modelle, come oggetti della raffigurazione, il cui soggetto creatore era invariabilmente un uomo. Viaggiò per le corti più importanti del ’600, Roma, Firenze, Venezia, Napoli, persino Londra. Ricevette molte prestigiose commissioni da prelati, signori, mecenati, dipinse per viceré, per cardinali e ricchi mercanti, vide esporre le sue opere sugli altari delle chiese e nelle cappelle delle confraternite più potenti. Lei, donna violata, marchiata dal disonore, affrontò l’onta del processo pubblico, gli sghignazzi dei contemporanei, il biasimo dei benpensanti, i lazzi e i commenti salaci di uomini e donne del popolo che non comprendevano cosa stesse facendo, perché osasse ribellarsi con tanta sfrontatezza alla consuetudine e alla natura delle cose.

Un incredibile, unico, straordinario atto di rivolta, la rivendicazione orgogliosa della propria eresia nello stesso tempo in cui si bruciavano filosofi e liberi pensatori sul rogo e si imponevano abiure e atti di sottomissione a giganti del calibro di Galileo, Bernini, Marino. Artemisia impugnò il pennello come una chiave per aprire la sua galera, nella quale non si lasciò mai rinchiudere. Non abbassò mai lo sguardo, non rinunciò mai ad esprimere quello che era, anche se era la sola a capirlo, la sola ad accettarlo. Anche se nessuno prima l’aveva fatto e nessuno allora lo stava facendo. Si sposò, ebbe una figlia, alcuni amanti, fece commercio della sua arte e gestì un suo proprio patrimonio. L’indipendenza fisica e intellettuale fu il suo marchio di fabbrica.

Fu questo il suo vero, straordinario talento, un talento da rivoluzionaria della vita, da viaggiatrice del tempo, da visionaria. Un coraggio immane, una chiarezza interiore che riluce meglio e più di qualsiasi colore su tela. La critica, oggi, comincia a capire, ma fino ad ora, manco a dirlo, ha stentato. Il più grande critico d’arte del ‘900, Roberto Longhi, scrisse di lei: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità…” (Gentileschi padre e figlia, L’Arte, 1916).

Ecco, non sappiamo affatto se fu davvero l’unica, io sono pronto a scommettere di no. Se potessimo disporre di un mezzo di indagine oggettivo per investigare nella storia silenziosa dell’umanità, quella che si svolge lontano dalla luce dei riflettori e delle testimonianze, sono sicuro che troveremmo tanti esempi oscuri di donne come lei, che non hanno avuto la forza e la ventura di lasciare una traccia. Senz’altro Artemisia è stata la sola a varcare la soglia della fama e a competere, alla pari, con i suoi colleghi uomini. Quello che ancora in pochi dicono -e voglio dirlo anch’io- è che immensamente più dei suoi colleghi uomini ha fatto risplendere di bellezza le tinte che usava, perché le mischiava a una luce interiore che nessuno oltre lei poteva avere.

Solo manifestando il proprio intimo potenziale partendo da quello che si è, qualsiasi cosa sia -come la Figlia del re Drago che diventa felice nonostante la sua natura animale, in una famosa parabola buddista- si può emanare una tale luce dorata.

Tutto questo non può non rendere la straordinarietà della sua biografia e la assoluta particolarità di ognuna delle sue realizzazioni. Ogni suo quadro è una vittoria unica e per questo un grande capolavoro. È come se un velocista di buon talento si qualificasse per le olimpiadi gareggiando sempre a piedi nudi contro rivali con scarpini chiodati. E una volta giunto alla rassegna riuscisse ad arrivare fino alla finale, tra i primi del mondo. Interesserebbe a qualcuno che, alla fine, nella gara con i migliori, non mostrasse un talento all’altezza di una medaglia?

Questo aspetto potrebbe forse sminuire il valore formidabile della sua impresa? Non credo.

Non so se abbia senso parlare di valore assoluto, in pittura. Dipingere un quadro non è come correre i 100 metri e la bellezza non si può misurare con un cronometro. Di certo il genio creativo nella storia dell’arte è stato declinato a livelli diversi, alcuni dei quali inarrivabili. E Artemisia lassù non è arrivata.

Nella sua arte però si avverte un profumo originale, del tutto straordinario, che, io credo, ha molto a che vedere con la gioia assoluta di essere giunta fin là con le proprie uniche forze, contro ogni previsione. Molto si è detto del sentimento di autobiografica rivalsa, quasi di vendetta, che trasmetterebbero alcuni suoi celeberrimi personaggi femminili, primi tra tutti le due Giuditta e Oloferne, quella degli Uffizi e quella di Capodimonte (Figg. 1 e 2). Ma a me non sembra affatto.

Piuttosto io leggo sul volto di queste donne una ferma, incrollabile decisione di autodeterminazione. Senza odio, ma soprattutto senza timore di affrontare il mostro grande e grosso che potrebbe schiacciarle con un dito, o il giudizio severo di chi guarda la scena sbalordito e preferirebbe di gran lunga vederle soggiogate, perché è così che andava il mondo, perché quello era il destino delle donne. Si vede la forza e la concretezza di chi sa quello che deve fare, di chi sa cosa vuole nella vita e si rimbocca le maniche, letteralmente, per realizzarlo, contro tutto e tutti. Non è Giuditta (Artemisia) che perde la testa, nemmeno davanti all’orrore. E se c’è da impugnare la spada (o il pennello) e macchiarsi di sangue (o di colore), pazienza. Perché è quello che deve fare, perché è quello che sente nel cuore. E non è forse questo un sentire profondamente umano che molto si avvicina alla definizione di felicità e, in ultima analisi, di libertà?

Un grande leader buddista del ‘900, Josei Toda, secondo presidente della Soka Gakkai, affermava che la felicità assoluta è quel sentimento che consiste nel provare gioia per il solo fatto di essere vivi. Cioè, un sentimento che rende liberi, liberi di essere senza necessariamente avere, liberi di sognare, di costruire, di perdere e di vincere. Liberi di soffrire per tornare a gioire, senza che niente e nessuno possa impedircelo. E il suo discepolo Daisaku Ikeda, attuale presidente della Soka Gakkai, citando Marco Aurelio, ha detto: “Dove si può trovare la felicità? La vera gioia di un uomo consiste nel fare le cose per cui è nato. Ecco, Artemisia ha vissuto tutta la vita facendo ciò per cui era nata, quindi è stata una donna libera, e senz’altro felice, in un mondo che costruiva prigioni buie e fredde per quelle come lei.

Oggi non mi avrà dato il brivido che in pittura solo il Genio mi dà, ma mi ha fatto sentire un profumo anche più bello, sicuramente più raro e prezioso: quello di chi non si arrende e conquista sul campo la propria libertà.

Figura 1. Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne. Galleria degli Uffizi, Firenze
Figura 2. Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Museo di Capodimonte, Napoli