
Il 13 settembre del 1321, in un palazzo di Ravenna, il Sommo Poeta finiva la sua esperienza terrena, ad appena 56 anni. Non c’erano la televisione, la stampa, il telefono, il motore, gli antibiotici, l’acqua corrente e l’elettricità, le armi da fuoco, gli aeroplani, gli orologi da polso, le penne biro, il pianoforte. Nessuno sapeva cosa fossero le malattie, come funzionassero i fenomeni naturali, cosa ci fosse al di là e al di sotto del grande oceano. E soprattutto- strano a dirsi- non esisteva ancora una lingua moderna che unisse tutti gli abitanti della Penisola. Quest’uomo prese qualche manciata di fango dalle pozze sparse del volgare, raccolse tutto quanto esisteva all’epoca in termini di scibile umano, dalla filosofia alla teologia, dalle scienze naturali all’astronomia, lo plasmò con le mani del Genio e vi infuse l’anima immortale della Poesia, quel ritmo magico che rende le parole vive, quello smalto brillante che le difende dalla banalità, dal tempo, dall’oblio. Così nacque la lingua in cui mi sto esprimendo ora, l’Italiano, prima ancora dell’Italia e soprattutto degli italiani. Una nazione e un popolo figli della Poesia.
Come la Poesia contraddittori, imperfetti, precari, astratti e rivoluzionari. Geniali cialtroni che tirano sassi al cielo e per lo più li riprendono in testa. Stupendi visionari che sanno scorgere le stelle oltre le nuvole ma piagnucolano se il tempo è cattivo. Come la Poesia, fragili ma capaci di qualsiasi slancio, effimeri come una parola lasciata cadere, eterni come una parola scolpita nel marmo. Quando le cose sembrano non andare, travolte dalla cacofonia della bruttezza e della stupidità, a volte forse basterebbe ricordarsi di questo. Anche perché non è mai più successo nella storia dell’umanità.
Dante, Alessandro Barbero, Laterza