Scipione Borghese, 1577-1633
C’è un bosco, nel cuore di Roma.
Lecci dai tronchi neri e dal fogliame fitto, platani superbi appena sfiorati dal vento, pini contorti stagliati contro un cielo quasi sempre blu. E poi, a perdita d’occhio, siepi d’alloro, aranceti, viali, fontane.
Non sembra di essere in centro, appena a ridosso della cinta di mura aureliane, antico confine dell’Urbe.
Eppure è così.
Oggi è un parco che accoglie passeggiate romantiche di innamorati in cerca di bucoliche intimità, o interminabili sfide a pallone di ragazzi in fuga dalla scuola. Qualche bimbo imperversa in triciclo, seguito dagli occhi apprensivi del nonno. Qualche turista biondastro brancola in stato d’ebbrezza, non sai se per eccesso di birra o di quella ineffabile, sottile vaghezza che esala da ogni antico sfarzo negletto: il fascino decadente di Roma.
Un tempo, però, sul finire del XVI secolo, quel luogo era la tenuta di caccia di una aristocratica famiglia di prelati, scesa da Siena per scalare i palazzi del potere pontificio. Appena fuori della Porta Pinciana, in posizione magnifica, era la sede ideale per un quartier generale che garantisse riservatezza, tranquillità e al tempo stesso controllo sulla città.
Non era tuttavia più quella l’epoca in cui i veri potenti della terra potessero accontentarsi di mostrare la loro grandezza ad amici, avversari e sudditi semplicemente organizzando battute di caccia al cervo, con strepiti di trombe e gran latrare di cani.
Quantomeno non in Italia, non a Roma. Non dopo la rivoluzione del Rinascimento.
Era un tempo, invece, di avida ricerca della Bellezza.
Una gara frenetica ad accaparrarsi gli oggetti simbolo dei talenti e delle virtù umane più alte, per stupire, per goderne la vista ogni istante del giorno e della notte, per dare forza, e il vestito lussuoso dell’autorevolezza, al proprio potere. Nell’epoca d’oro in cui l’Italia tornò ad essere il centro della cultura del mondo, la bellezza circolava come valuta pregiata tra corti, cattedrali, cappelle e dimore patrizie, imprigionata in oggetti straordinari, creati da una folgorante e irripetibile generazione di geni.
Quella potenza era ambita, per essere tradotta in potere.
Era la moneta di acquisto di prestigio, rispetto, fama; il vero scettro del re, il segno di una distanza incolmabile tra chi poteva disporne e chi ne era infinitamente lontano.
Segno di una distanza, non di un sentire comune.
Un uomo più degli altri, a quei tempi, aveva compreso tutto questo: Scipione Caffarelli, figlio di Francesco e Ortensia Borghese. Aveva studiato molto, Scipione, grazie al sostegno generoso dello zio materno, Camillo Borghese, cardinale di Santa Romana Chiesa. Teologia, filosofia, diritto, prima a Roma, al Collegio Romano, poi a Perugia.
Sapeva, aveva visto e compreso quale piacere profondo potessero offrire manufatti torniti, forme perfette, colori impastati in prodigi visivi. Sapeva come quel piacere -gli effetti di quel piacere- potessero legare, confondere, stupire, ma anche educare, correggere, lenire, consolare.
Per questo, quando lo zio Camillo salì al soglio pontificio nel 1605 col nome di Paolo V, e non attese molto per nominarlo a sua volta cardinale, consegnando nelle sue mani un potere quasi assoluto e un’immensa fortuna, oltre che le insegne di casa Borghese, Scipione si diede immediatamente a realizzare il suo ambiziosissimo sogno: creare un luogo ove la Bellezza fosse accumulata in concentrazione e qualità tali da non consentire paragoni con altro al mondo, in cui essa fosse al tempo stesso effetto e causa del potere temporale e di quello religioso.
Un luogo in cui le menti e le anime dei visitatori fossero per sempre avvinte, coinvolte, conquistate. Intimidite dalla gittata di quell’arma di seduzione di massa.
Scipione concepiva un’idea esclusiva della Bellezza, come fonte di un godimento personalissimo e privato e al tempo stesso come strumento di legittimazione di una supremazia intellettuale e materiale assoluta. L’intento che l’animava, incoercibile, pulsante, ossessivo, era privo di qualunque volontà salvifica. L’immenso granaio che andava creando non sarebbe servito alla semina nei campi deserti di genti affamate, ma a saziare la sua incolmabile brama e a far cantare la gloria della sua Casa.
L’intuizione originale alla base di questa idea malsana, però, era corretta.
È vero che la Bellezza è una rete vischiosa che cattura, come una trappola. Attira dapprima lo sguardo, invischiandolo in forme di ipnotica armonia, per poi risalire a ritroso, seguendo il suo filo d’Arianna, fino a ciò che allo sguardo è legato e connesso, nel profondo dell’animo umano. Si sposta fulminea, come corrente elettrica lungo un conduttore, verso la fonte di quello sguardo: la cripta segreta, sepolta e protetta, dove ha origine il pensiero, il respiro, la vita.
Scipione ne era preso al punto da dedicarle devotamente un tempio, il più ricco della Storia, un luogo di culto, sacro, ove il dio venerato non era trascendente. Una collezione, una concentrazione impossibile, sconvolgente e unica per qualità, varietà e finezza: la più pregiata manifattura del genio umano, dalle epoche antiche fino a quel tragico, meraviglioso primo Seicento, disposta in bella mostra nelle sale affrescate del suo palazzo-forziere.
In una di queste, al piano terreno, aveva collocato il più prodigioso dei suoi pezzi, un capolavoro di uno dei massimi scultori della storia, Gian Lorenzo Bernini.
Un gruppo marmoreo che sfida le leggi di natura, mostrando al passante attonito come dalla pietra può generarsi la vita (Fig. 1).
Un giovane e bellissimo dio, Apollo, insegue in un bosco con passo leggero la più soave di tutte le figlie del fiume Peneo, Dafne. Ha pelle candida e liscia, la ninfa, e forme di perfetta armonia. La sua nuda bellezza è il simbolo di tutte le bellezze del mondo, che non ammettono di essere soggiogate da avide brame. E Dafne incarna questo valore di libertà, scegliendo di tramutarsi in alloro fronzuto, perché la Bellezza non può essere schiava di alcuno, non può essere presa, ma solo goduta, con cuore gentile.
Il distico inciso sul basamento dall’abile mano di Maffeo Barberini, cardinale come Scipione e futuro pontefice, d’altronde, ammoniva severamente: quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae, fronde manus implet, baccas seu carpit amaras.
Chiunque amando insegua i piaceri di una bellezza fugace, riempie la mano di foglie e raccoglie solo amari frutti.
In molti più saggi ed esperti di me, sono convinti che il colpo di genio del Barberini servisse a dare giustificazione di alto valore morale alla statua sublime, altrimenti assai sconveniente per la dimora di un cardinale, in tempi in cui si bruciavano ingegni sul rogo per molto di meno. Un gesto, dunque, per salvare il grande artista e la sua opera sensazionale dagli strali dell’ortodossia.
Io però mi sono persuaso che il monito andasse molto oltre questa prudente intenzione. Era un invito, forse proprio a Scipione, a non violentare la Bellezza con un uso improprio, che la renda vana. La prigione privata trasforma, alla fine, l’oggetto del gaudio sublime in materia inerte e la Bellezza svanisce come bruma al primo sole del mattino.
Scipione è rimasto in effetti con un pugno di foglie in mano, lasciando questa vita e l’occasione che aveva sfiorato, senza usare davvero e fino in fondo quell’immenso potenziale, se non per se stesso e per pochi dei suoi.
Grazie a uno di quei miracoli che assai raramente si verificano, tuttavia, la storia ha realizzato quanto a Scipione non era riuscito.
Quello scrigno di tesori, pur con perdite sanguinose nel corso dei secoli, ha resistito fino ai giorni nostri: nel 1901, con un colpo di scena degno dei migliori romanzi a lieto fine, la famiglia Borghese cedette parco e palazzo, con tutto il suo contenuto, allo Stato italiano per una cifra inferiore a quei 4 milioni di lire che il Barone Rothschild, moderno Scipione all’arrembaggio, era disposto a sborsare per un solo quadro della collezione: il capolavoro di Tiziano L’amore sacro e l’amor profano.
Oggi quel posto è un museo, lo sapete. È la Galleria Borghese.
Appartiene ai cittadini italiani.
Andateci. Guardate, ascoltate, lasciate che quegli oggetti vi parlino delle loro storie. Lasciate che la Bellezza si esprima secondo natura, apra al senso universale il vostro cuore e faccia cogliere a voi l’occasione persa da Scipione.
