Pietà

Giovanni Bellini, 1430-1516

Pietà, Pinacoteca di Brera, Milano

A un grande storico dell’arte del ‘900, Daniel Arasse, venne chiesto, una volta, cosa mai ci potesse essere in un quadro, piuttosto che in un altro, in grado di affascinare l’osservatore, di indurlo a fermarsi, al punto da non riuscire più a separarsi da quella visione. “Per quel che mi riguarda– rispose Arasse– poiché naturalmente non c’è una regola generale, direi che è il sentimento che in una determinata opera vi sia qualcosa che pensa, e che pensa senza parole” (Daniel Arasse, Storie di Pitture, Einaudi 2014).

È così per tutti. Siamo abituati ad associare il pensiero alle parole e viceversa, cioè a elaborare pensieri attraverso un linguaggio, anche mentale, prevalentemente verbale. Le parole, udite, pronunciate, scritte, lette, o solo formulate nella mente, hanno un ruolo chiave nella genesi di quel processo complesso che si chiama pensiero umano. Addirittura, per dirla in termini filosofici contemporanei, le parole sarebbero il prerequisito perché esso possa avvenire: senza parole il pensiero non esisterebbe.

Un dipinto, invece, è un’altra cosa, segue un’altra via.

È certo l’espressione di un pensiero -molto spesso di più pensieri articolati tra loro- ma in forma non verbale, attraverso un concentrato di simboli che possono essere abbracciati completamente e definitivamente da un solo fugace sguardo, con effetto sinottico immediato, sconvolgente proprio in quanto percezione istantanea di una complessità.

Questo pensiero senza parole, questa voce che racconta di mondi e tempi diversi, di uomini, oggetti, luoghi e sentimenti parlando per immagini, forme, colori, è precisamente ciò che mi inchioda davanti a un’opera d’arte, in silenzio, in apnea, per timore di perdere un tono, un dettaglio, un sussurro.

Ecco, c’è un quadro in particolare che, per me, esercita questo potere. È la Pietà, di Giovanni Bellini, oggi alla Pinacoteca di Brera, a Milano (Fig. 1).

Bellini è stato uno dei più grandi pittori della storia, un gigante del rinascimento, nato a Venezia dopo il 1430. Fu maestro ammiratissimo di Tiziano e Giorgione, coetaneo di Mantegna, che gli era cognato, avendo sposato la sorella maggiore Nicolosia, e di Antonello da Messina, di cui ammirò, tra i primi, l’uso dei colori a olio e la lezione straordinaria dei fiamminghi. Il più grande dei critici d’arte del XX secolo, Roberto Longhi, scrisse di lui parole immortali, che lo descrivono come uno dei grandi poeti d’Italia.

Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quello che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo, fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura. Accordo tra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane e cariche di sogni narrati; tra le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le ciese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei. Una calma che spazia fra sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso; e una pacificazione corale che fonde e sfuma i sentimenti, dall’alba di rosa al tramonto di viola, secondo l’ora del giorno”.

Un uomo capace di un disegno finissimo e di un colore in equilibrio e in pace con le cose del mondo, di una luce quieta, chiara, che muta al mutare delle ore del giorno e dei sentimenti dei viventi, ma che non fugge mai dinnanzi all’incedere dell’ombra e del dramma. Un poeta della natura e dell’uomo, ma un poeta elegiaco, malinconico, buono, pensoso, pieno di amore e fiducia, di attenzione delicata, di umiltà, proprio come lo rappresenta in un meraviglioso ritratto oggi a Copenaghen, il suo devoto allievo Tiziano Vecellio.

Tutto questo, però, non serve se non si trova il tempo di mettersi davanti a quel quadro, a Brera, lasciandosi, per un attimo, portare via dal pensiero senza parole di Bellini. Chiudendo i sensi alle suggestioni del mondo tutto intorno e aprendoli alla musica segreta che, dopo qualche istante, si rivela e incanta.

Tutto scompare. Resta quel giovane uomo, anzi il suo corpo, appena abbandonato dalla vita. Non è solo morto: è stato ammazzato, torturato denudato, umiliato sulla pubblica piazza. Senza colpa. Era buono, aveva coraggio, parlava solo d’amore. Questo il reato, quella la pena, per una giustizia insensata.

Ha sofferto terribilmente, per ore interminabili, inchiodato a una croce di legno. Il suo corpo giovane e forte lo avrà pure mostrato, il suo volto avrà assunto la smorfia tremenda del dolore assoluto, ma ora, nella placida luce del tramonto di un’era, tutto è concluso. Sul viso non c’è più traccia di quella tempesta. È sereno, disteso.

Gli occhi, poco prima iniettati di lacrime e sangue, sono adesso nascosti da un lieve velo di palpebre, chiuse ma non serrate, scese ma non contratte. Quegli occhi, ora, guardano dentro, non più verso il mondo degli uomini. Guardano giù, nel profondo dell’anima e in su, verso il cielo infinito. Sono intenti e compresi, nel senso di una missione appena compiuta; sono puntati al futuro, verso quella che attende.

Accanto al viso del figlio c’è un altro viso. Un viso di madre. Sua madre. D’un tratto, la donna è invecchiata. Non ha cinquant’anni, ma ne mostra molti di più. È un volto teso, al contrario dell’altro. Lineamenti contratti, straziati da una pena che non si può dire, solo mostrare.

Sembra non accettare, eppure sapeva da sempre. Sembra non arrendersi a una realtà spaventosa e semplice nella sua crudezza: suo figlio non c’è più, gliel’hanno ammazzato, come era scritto che fosse.

Maria di certo comprende, ma non può evitare di essere madre, oltre che Santa. È questo, la sua parte di donna che la rende viva, vera, umana: non accetta il verdetto, gli si oppone, tenta di catturare l’ultimo sospiro del figlio protendendo le labbra dischiuse verso quelle di lui, già livide. Fissa angosciata la bocca del morto, come sperando invano in un movimento, in un soffio vitale. La scena è tutta in un istante, un attimo tragico e immenso di dolore materno.

Non è una madre qualunque, è la madre di dio, ma soffre come ogni altra madre e non si rassegna alla morte del figlio. Non la capisce, forse, travolta da uno strazio alienante, come ogni madre terrena; combatte quell’idea insopportabile, cerca di carpire il segreto intimo del trapasso, vuole fermare il debole fiato della vita che fluisce via.

Ma siccome è madre di dio e non una madre qualunque, sa pure che questo suo essere umana, questa piaga che le brucia dentro come un tizzone di brace, tutto questo ha un senso, è parte di un disegno, come anche il sacrificio del figlio. Un disegno d’amore.

In questo disegno, in questa saggezza, faticosa e profonda, c’è tutta la storia degli esseri umani, ciuffi d’erba al vento, fragili steli piegati al capriccio del tempo, ma consci, capaci di accogliere quel senso, per farne un destino supremo. Capaci, con solo colori, pennello e una tela, di fissare per sempre l’istante preciso.

L’istante in cui il corpo di Cristo è lasciato dalla vita e dal dolore, si accascia, è sorretto dalla madre. L’istante in cui la madre lo sente spirare, impazzisce, dimentica il patto e il senso di tutto, vuole impedire la morte. L’istante in cui la grazia della vita, del significato profondo del gesto del figlio e della promessa fatta, riemergono giganteschi e la salvano dall’abisso della disperazione. L’istante in cui allora decide e si carica sulle spalle il proprio dolore come se fosse il dolore di ogni madre, sorregge il corpo già esangue del figlio come fosse il corpo di ogni figlio caduto. Non cede allo strazio che sente dilaniarle il cuore, non lascia che il dolore assoluto le stravolga la mente. Abbraccia con infinita tenerezza la sua pena e manifesta appieno la grazia.

L’istante in cui natura divina e umana trovano un meraviglioso e poetico equilibrio in quel viso di donna. E la mano di un giovane ucciso, abbandonata sul marmo, sembra d’un tratto uscire dal quadro, per ricordarci, in un brivido, che quella scena parla di noi.

Figura 1. Giovanni Bellini, Pietà. Pinacoteca di Brera, Milano.