L’amore ritrovato
Bernardino di Betto, detto Pinturicchio 1454-1513
Madonna con bambino benedicente Papa Alessandro VI, Collezione privata
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dai due quadri, nella saletta semivuota del palazzo cinquecentesco dove era stata allestita la mostra, e pensavo che una volta di più la giustizia degli uomini aveva funzionato in ritardo: dopo quattro secoli di dolorosa lontananza, inflitta come castigo per una colpa non commessa, una madre e suo figlio erano finalmente tornati insieme, belli, felici, radiosi come un tempo. L’antica storia della loro separazione e quella molto più recente del temporaneo ricongiungimento mi avevano commosso al punto che ero tornato più e più volte a vederli vicini, come per fissare nella memoria la tenera meraviglia della loro perfezione insieme, prima che, chiuso lo spazio fugace di quella esposizione, rientrassero nelle dimore che li ospitavano disgiuntamente.
Le due opere erano state poste affiancate, quasi a contatto, a ricomporre almeno in parte, nel piccolo spazio di una parete, l’intimità primigenia, perduta fin dalla metà del XVII secolo.
Avevo l’impressione che la forza dell’opera originaria, un affresco raffigurante la Madonna con il Bambino in grembo, fosse tale da imporre, contro la volontà degli uomini che la violarono, una ineluttabile ricomposizione.
I due soggetti, pur autonomi nella successiva ricollocazione su tavola, emanavano una fenomenale energia di attrazione reciproca, inesauribile, incomprimibile (Figg. 1 e 2).
Il volto della madre, una giovane Maria dai lineamenti morbidi, appariva assorto, leggermente reclinato in avanti, come per accompagnare il moto di dolcezza profonda e consapevole che promanava dagli occhi bassi e si rovesciava come un fiume in piena verso il bimbo. Le labbra piene, leggermente rosate, sembravano dischiuse, umide. Forse per trattenere l’ennesimo bacio o per sussurrare parole senza voce, parole d’amore tenere e disperate, come amorevole e disperato era quello sguardo di madre che conosce il futuro ma non sa rinunciare al presente, fatto di un assoluto, pervasivo sentimento che esclude ogni altro. Si irradiava dal quadro, quel sentimento, in modo naturale, come la luce chiara del mattino si fa strada tra i vapori residui della notte. Proveniva dalla patina cromatica, invecchiata dal tempo, come se quella pellicola sottile e polverosa trattenesse a stento una polpa viva, pulsante sotto la superficie. Un amore semplicemente umano che, tuttavia, ispirato dal soffio della divinità, non sembrava recare alcun segno di vertigine, di timore, pur nella certezza dello strazio futuro.
Amare espone al dolore, ma non si può farne a meno, se si vuole vivere davvero, e quella Maria era lì ad esplodermi in faccia, impavida e quasi sfidante, la qualità più bella e pura del suo amore per la vita. Quella donna, apparentemente fragile e delicata come un fiore, mi appariva come un gigante invincibile, la cui unica e assoluta forza risiedeva precisamente in questo sentimento d’amore, autonomo, assoluto nella sua indipendenza: non un amore astratto e teorico, non il freddo sguardo di una sagoma trascendente che accetta di amare l’imperfezione umana, la carne palpitante e greve di un essere mortale, sapendo di essere ben altro, al sicuro in un guscio di eternità. Un amore vero, piuttosto, terreno, mortale, totalmente esposto al morso dell’impermanenza. Proprio quello che esala da ogni respiro, che impregna ogni fibra dell’essere madre. Avevo davanti un simbolo, un senso universale: questo di magico sa fare la pittura. Non solo un viso di donna dipinto, ma il segno di un sentimento che è principio e fondamento del genere umano, che lega i destini di tutti, governa il presente, incide il futuro.
Accanto, era stato posto, con gesto catartico e riparatore, il terminale fisiologico di quel flusso potente di energia, l’altro polo del campo magnetico. Il suo perduto bambino.
Restituito al grembo materno, sembrava gioire di quel ritrovato contatto, sembrava sentire di nuovo la madre dietro di sé, e percepire sul corpo il tocco dolcissimo delle sue mani. Lo si intuiva dai riflessi profondi nello sguardo, dalla posa del dorso inarcato, come per un brivido di puro godimento, al sentirsi di nuovo abbracciato, di nuovo accolto e non più abbandonato. “Sapevo saresti tornata- sembrava pensare. “Non so perché mi hai lasciato, ma sapevo saresti tornata”. Un bimbo già uomo, nel suo conoscere perfettamente il compito a lui destinato; ma ancora bimbo, nel suo avere bisogno di quel tocco, da dietro, per procedere lungo un arduo cammino. Un tocco discreto di cui forse nessuno, neanche il figlio di dio, può mai fare a meno.
Guardavo quei due, completamente rapito. La bellezza perfetta di quelle forme, la finezza della ricerca cromatica, lo sfarzo dei complementi del decoro, tutti gli elementi che innegabilmente davano pregio all’intera composizione, non bastavano però a giustificare l’emozione fortissima da cui mi sentivo pervaso. Il potere dell’arte è anche e soprattutto questo: esprimere l’inesprimibile, confezionare linguaggi oltre il razionale, percorrere sentieri oltre la logica, gettare ponti di corde oltre il bastione dell’io consapevole.
I due quadri, accostati, erano più forti e più belli. Più emozionanti. Sembravano giovarsi della vicinanza, sembravano muoversi impercettibilmente in una relazione. Ognuno dei due era compiuto e vero, era davvero se stesso, solo accanto all’altro. Un pensiero era scaturito in me, da quella sorgente occulta che sfuggiva allo scandaglio del mio razionale, e assumeva forza e dimensioni di un’intuizione profonda. Ciò che ora appariva distinto, separato, in realtà era un’unica cosa nel remoto passato. Non la composizione pittorica, ovviamente: questo era il dato reale, conosciuto; piuttosto la relazione tra i due soggetti: il vero, fortissimo tema che con quel formidabile gruppo umano il genio di Pintoricchio aveva rappresentato.
Fissavo quei due e pensavo non che fossero fatti per stare insieme, ma che fossero semplicemente e assolutamente un’unica cosa. Un’unica cosa era la relazione, che non si era spezzata alla separazione forzosa della coppia, che non dipendeva dalla presenza o dalla lontananza, che aveva continuato ad esistere dentro ognuno dei due, in latenza, e ora, ripristinata la condizione esterna del contatto, tornava ad esprimersi in tutta la sua infinita e incomprimibile energia. Forse, amare davvero è sentirsi così, rispetto a un’altra persona. È una condizione di relazione più forte delle circostanze, che attende di potersi manifestare senza temere il tempo e la distanza. Due ma non due: la libertà solidale. Non funzionerebbe se non fosse che ogni vita è perfettamente dotata, perché altrimenti ci sarebbe bisogno dell’altro per esistere: mancherebbe la libertà. La connessione, poi, tra vite perfettamente dotate, non limita, non riduce, ma restituisce il senso profondo di ognuna. Può accadere, di amare così? È bello pensare di sì.
E proprio questo pensavo, guardando quei quadri; intanto, però, avevo davanti l’ennesima prova che la pittura parla solo a chi è disposto ad ascoltare la sua voce profonda. Con un atto di brutalità intenzionale, fisica e ideologica, un giorno i due pezzi di affresco erano stati strappati dal muro, separati, collocati su tavola, rinchiusi in cornici diverse e destinati a luoghi lontani tra loro, nel buio di una ricca collezione privata. Perché?
Per rispondere bisogna raccontare una vecchia storia di odio e violenza. La storia sempre uguale e diversa della meschinità umana. Subito dopo la sua elezione al soglio pontificio con il nome di Alessandro VI, nel 1492, il vorace e coltissimo cardinale Rodrigo Borgia chiamò a Roma uno dei più affermati artisti dell’epoca, il perugino Bernardino di Betto detto Pintoricchio, per incaricarlo di decorare con motivi degni del più magnifico dei sovrani le sue stanze private in Vaticano. E Pintoricchio, che già qualche anno prima, sotto Sisto IV, aveva dato superba prova di sé, partecipando con la bottega del suo mentore Pietro Perugino all’allestimento degli affreschi sulle pareti laterali della Sistina, non si fece pregare. In pochi mesi, il suo pennello infaticabile produsse un rutilante caleidoscopio di immagini di soggetto sacro e mitologico, paesaggi, grottesche, rilievi in stucco dipinto, scene della vita dei santi, in una versione moderna della più alta tradizione classica. Era una nuova, magnifica Domus Aurea nella dimora del Capo della Cristianità, quando ancora l’ortodossia cattolica poteva godere delle migliori suggestioni degli antichi, prima che il vento della Controriforma inaridisse nel terrore ogni fonte d’ispirazione profana. Era l’epoca più ricca e matura del Rinascimento italiano.
Pintoricchio realizzò un capolavoro straordinario, coronato dal gioiello più prezioso di tutti: nel cubicolo destinato alla camera da letto del Borgia, al di sopra della porta, dipinse la più riuscita delle Madonne di cui era acclamato specialista; più perfetta, più soave, più umana di quella della Pace, a Sanseverino Marche, o di quella della Cappella di san Girolamo, in Santa Maria del Popolo a Roma.
Una giovane e splendida Maria, vestita di un ricco peplo blu di azzurrite tempestato d’oro e di una tunica rossa, con in braccio il suo bimbo, nell’atto di benedire il Pontefice e di investirlo direttamente e personalmente del potere divino. Alessandro VI, inginocchiato davanti alla Sacra Famiglia, sfiora addirittura con la mano destra il piedino sinistro del bambino, in un gesto di contenuti dalla straordinaria potenza evocativa, pur nella elementare naturalezza della rappresentazione. Non una comune scena di ‘Adorazione’, ma una rarissima composizione: la ’Investitura divina’ di un pontefice, ad opera dello stesso Cristo bambino.
Un’opera dotata di forza gigantesca, per la bellezza travolgente delle figure, per l’effetto seduttivo dell’intera scena, ma soprattutto per la spregiudicatezza del messaggio politico che veicolava esplicitamente. Non appena gli affreschi furono presentati di fronte agli alti prelati della corte pontificia, la voce della loro magnificenza corse veloce di bocca in bocca. Si parlava del lusso dei colori e degli stucchi dorati, della ricchezza dei dettagli e delle scene curiose ispirate alle grandi case degli imperatori romani, ma soprattutto si parlava della bellissima Madonna con il suo bambino, che investiva di un potere immeritato l’usurpatore valenciano, il Papa che con la sua condotta licenziosa stava sprofondando nel discredito la Chiesa di Roma.
Tutti, a Roma, sapevano dei figli avuti dal Borgia con la nobildonna Vannozza Cattanei, tra cui i famigerati Lucrezia e Cesare; tutti sapevano dei festini e delle orge che squassavano i silenzi delle stanze vaticane; tutti sapevano dei sermoni infuocati con cui il domenicano fiorentino Gerolamo Savonarola inveiva contro la corruzione e la blasfemia della corte papale. Ma soprattutto ogni romano sapeva che l’appetito vorace di Alessandro VI in quegli anni era puntato in una direzione precisa, divenuta nel tempo una vera ossessione: la giovanissima e sublime Giulia Farnese, fanciulla di piccola nobiltà viterbese, conosciuta in una delle tante feste di cui Rodrigo era ospite d’onore, quando era ancora il Cardinale Borgia.
Giulia era bellissima e i Farnese ambiziosi. La madre, Giovannella Caetani, comprese che la protezione del potentissimo Cardinale poteva cambiare per sempre il destino della famiglia. Così, mentre mandava il figlio cadetto Alessandro a studiare a Firenze, alla corte di Lorenzo il Magnifico, spingeva l’appena adolescente Giulia tra le braccia del vecchio prelato. Si ipotizza che la relazione iniziasse nel 1488, quando Giulia aveva appena 14 anni e il futuro papa ben 57. Già l’anno successivo, il Borgia suggellò l’ascesa dei Farnese nella nobiltà romana, benedicendo le nozze tra il maggiore dei due fratelli di Giulia, Angelo, con una rampolla di casa Orsini, e subito dopo costrinse la stessa sua giovane amante a un matrimonio di comodo con il guercio Orsino Orsini, per salvare almeno le apparenze.
Ma il vero beneficiario del sacrificio della piccola Giulia fu proprio il secondo dei suoi fratelli, Alessandro. Rientrato a Roma dopo gli studi fiorentini, non appena Rodrigo divenne Alessandro VI fu da questi nominato cardinale, il 20 settembre 1493, alla tenera età di 25 anni: una folgorante carriera, consumata sulle lacrime della sorella, che porterà la sua famiglia nel ristretto novero delle più potenti del XVI secolo, con apice nei quindici anni di pontificato dello stesso Alessandro, eletto papa nel 1534 con il nome di Paolo III. Il papa Farnese fu uno dei protagonisti del secolo (a lui si deve il Concilio di Trento) e rese la città più bella, con l’aiuto di straordinari artefici da lui munificamente patrocinati, uno su tutti Michelangelo Buonarroti.
Per quanto fossero diventati ricchi e potenti i Farnese, tuttavia, nessuno dentro e fuori la Curia di Roma ignorava a chi, almeno inizialmente, si dovesse la loro fortuna. E non era quello un mondo cui potesse sfuggire una simile occasione di maldicenza. Alessandro era dileggiato dai versi di Pasquino e dai feroci lazzi dei romani, che lo soprannominarono ‘il Cardinal Fregnese’.
A Giulia era riservato il disprezzo di tutti, timido finché il suo protettore fu in vita, molto più esplicito e crudo dopo la morte del Borgia (1503) e durante il pontificato del suo più acerrimo nemico, Giulio II Della Rovere. Dalla morte di Alessandro VI, nessun pontefice volle più abitare nelle magnifiche stanze di Pintoricchio, ma gli stupendi affreschi che le decoravano continuavano a suscitare l’ammirazione di prelati, studiosi e appassionati di ogni angolo della cristianità. Tutti tranne uno: il capolavoro della Madonna col Bambino iniziò invece ad attirare su di sé attenzioni sempre meno benevole e interessi sempre più morbosi.
Le voci si rincorrevano, dai corridoi vaticani ai vicoli della suburra: il Papa spagnolo aveva fatto ritrarre Nostra Signora con il volto della sua concubina. Quei tratti così delicati non erano di una generica, soave Madonna, ma proprio della giovane e conturbante Giulia Farnese. Il maligno pettegolezzo divenne verità ufficiale quando il più autorevole degli studiosi del secolo, il celeberrimo Vasari, senza probabilmente nemmeno aver visitato di persona l’appartamento papale, sentenziò nelle sue Vite, parlando di Pinturicchio: “Ritrasse sopra la porta d’una camera la Signora Giulia Farnese nel volto d’una nostra donna e nel medesimo quadro la testa d’esso Papa Alessandro che l’adora”.
Vasari non amava il geniale pittore umbro e non comprese la grandezza di quell’opera, criticandone la resa approssimativa della prospettiva, che giudicava un’eresia, e l’utilizzo spregiudicato degli stucchi dorati in rilievo. Non coglieva gli elementi di modernità di quel fantastico modo di dipingere, la straordinaria capacità di sintesi, la ricchezza degli strumenti espressivi. Di fronte alla Madonna col bambino, forse uno dei più alti capolavori del tardo ‘400 in Italia, non seppe dire altro che era il ritratto dell’amante del Papa. La fake news di un hater di professione, divenne verità nell’immaginario collettivo: una calunnia feroce assurta a sentenza incontestabile, portata dal vento malevolo del giudizio, del disprezzo, dell’invidia. E della stupidità. Succedeva anche allora.
Il linciaggio mediatico, come diremmo noi oggi, portò a un duplice, terribile torto: verso la donna, che non meritava quel trattamento, quel giudizio, quel disprezzo feroce; e verso il capolavoro di Pinturicchio, che con quella vicenda di ipocrisia farisea e violenza ideologica nulla aveva a che fare. Da quel momento in poi, l’opera subì il precario destino dei dipinti maledetti, soggetto agli umori e alla intelligenza di pontefici e cardinali che per oltre un secolo, dopo la morte di Paolo III Farnese (1549), ebbero la disponibilità di quelle magnifiche stanze. Fu dapprima ricoperto da un pesante drappo, poi nascosto sotto una tappezzeria inchiodata, infine, nel 1659, sotto il pontificato di Alessandro VII Chigi, rimosso dal muro e smembrato. Il papa Chigi, che portava, ma per motivi diversi, lo stesso nome scelto dal Borgia, non voleva che nulla vi fosse ad associare, anche solo fortuitamente, i due pontificati. E decretò la condanna: madre e figlio vennero montati su tavole, incorniciati e separati per sempre, mentre l’immagine dell’odiato spagnolo fu barbaramente fatta a pezzi. L’inesorabile clessidra del tempo fece il resto, posando una patina sempre più spessa di oblio sull’intera vicenda.
Per secoli, nessuno ebbe più memoria di quel fatto di sangue e il figlio strappato alla madre si perse nel buio. Io credo però che sia esistita una forza a tenere comunque uniti quei due, come un filo invisibile attraverso le tenebre, in attesa di momenti migliori: il potere infinito della relazione. Il tema che Pintoricchio aveva davvero voluto rappresentare e che apparteneva a lui esattamente quanto a ogni altro essere umano. Anche per questo oggi ne stiamo ancora parlando: perché lo riconosciamo, ne abbiamo una forma archetipica dentro, tutti. Quella è la forma, nelle rappresentazioni, che parla davvero a chi guarda.
Quella forma, potente, evocativa, io credo abbia parlato, nel 1612, a un bravo pittore al servizio dei Duchi di Mantova, Pietro Fachetti, che decise, per motivi che oggi non possiamo sapere, ma che io amo supporre legati a un’inconscia emozione, di chiedere il permesso a Scipione Borghese, il Cardinal nepote allora residente nelle stanze, di copiare la Madonna col bambino. Copiare, capite? Aveva raccolto il messaggio nella bottiglia di Pintoricchio, celato appena dietro a quelle forme convenzionali e lo sentiva, in risonanza interiore, dialogare con il suo proprio mondo emotivo. Fachetti realizzò la copia (Fig. 3), pochi decenni prima che l’affresco venisse smembrato e la consegnò ai suoi mecenati Gonzaga, che odiavano i Farnese e forse volevano conservare il ricordo della vergogna di Giulia: a noi importa soltanto che il filo sottile tra la madre e suo figlio fosse così mantenuto.
Passarono tre secoli e mezzo di silenzio ed ecco il primo tenue strattone, da un capo di quella invisibile lenza. Nel Dopoguerra uno studioso toscano (Incisa della Rocchetta, 1947) pubblica il quadro del Fachetti, visto per la prima volta sette anni prima in una collezione privata mantovana. Si ritorna a parlare del fantomatico affresco vaticano. Poi, ancora decenni di silenzio, ma ormai il filo è teso di nuovo, il Bimbo rivuole sua madre. Rimasto fino ad allora nel buio della collezione Chigi, viene venduto nel 2004 a una società privata che comincia ad esporlo. Viaggia alla disperata ricerca di sua madre: Roma, Napoli, Parigi, Madrid, New York, il ‘Bambino delle mani’, frammento originale di Pintoricchio, è una celebrità internazionale. I tempi sono maturi: dal 2006 (F.I. Nucciarelli, Pintoricchio. Il Bambin Gesù delle mani. Quattroemme, Perugia 2006) si susseguono numerosi studi che lo riferiscono al piccolo pittore umbro e ai suoi affreschi vaticani. Ed ecco che, evocata dalla luce di un sentimento mai sopito, più forte della tenebra più gelida, a quasi quattro secoli dalla brutale separazione, la Madre riemerge dall’ombra polverosa in cui era stata cacciata: viene riconosciuta nella Madonna della Collezione Chigi, citata almeno dall’inizio del ‘900 dalla bibliografia critica ma mai presentata ufficialmente. La scoperta è sensazionale, ma ci vogliono ancora altri lunghi anni di attesa perché finalmente, in una tiepida primavera dell’anno del Signore 2017, si ricomponga l’abbraccio: madre e figlio di nuovo insieme, in una intima collocazione esclusiva nei Musei Capitolini a Roma, la loro città.
Le indagini eseguite dai massimi esperti chiariscono oltre ogni dubbio residuo l’estraneità al dipinto della dolce Giulia Farnese: si tratta semplicemente di una meravigliosa Madonna, che altro non aveva mai chiesto se non di tenere nel grembo suo figlio. Nessuno, tra gli umani, può trattenere le lacrime. Pintoricchio, dal cielo, sorride.


